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I Cani - Niccolò Contessa, foto di Federico Ciamei rockit
presenta

Niccolò Contessa I CANI Sarà l’aurora

L'intervista a volto scoperto,
alla vigilia del nuovo album

intervista: Nur Al Habash
stop motion portraits: Federico Ciamei
art direction: Diego Ferreri


Sull’ennesimo gruppo pop romano ormai sono stati versati fiumi di inchiostro. Sono passati solo sei anni dal debutto de I CANI come “fenomeno di YouTube” e già sembrano decenni: passato il mistero dell’anonimato, le buste di carta in testa, le domande sul nome bizzarro, la storia del cantautore-one man band che si è fatto da solo, le foto promozionali con i ritratti di pastori tedeschi e barboncini, il primo concerto a volto scoperto al nostro MI AMI Festival. Passato anche il clamore suscitato da un disco che sembrava raccontare Roma e la sua gioventù in una maniera così sincera e lucida da essere quasi imbarazzante, passati i concerti sold-out in tutta Italia, le canzoni diventate inni generazionali, le copertine dei giornali e le immancabili polemiche. Sono passati sei anni e la viralità attorno alla band ha ceduto il posto ad una più tangibile e sana popolarità, le buste in testa sono finite da qualche parte in cantina assieme alle “religioni e la Playstation 2” e gli hipsterismi, anche quelli hanno fatto il loro tempo. Nel 2016 è finalmente arrivato il momento di "Aurora", il nuovo disco della band che sarà pubblicato il prossimo 29 Gennaio per 42 Records; un lavoro atteso, molto oscuro eppure pieno di speranza.
Anche se non è salito su nessun palco, il 2015 è stato l’anno in cui Niccolò Contessa, in arte I Cani, ha suonato di più in assoluto. Ha lavorato alla colonna sonora di un film, ha seguito la produzione del chiacchierato disco di Calcutta e si è svegliato ogni singolo giorno con la consapevolezza di doversi sedere di fronte al pianoforte e suonare. Mi racconta tutto a Milano una mattina di Dicembre in uno studio seminterrato dove ha appena terminato il suo primo shooting a volto scoperto. Per essere uno abituato a presentarsi al mondo con un sacchetto di carta in testa, è stato un notevole sforzo.

Chiudiamo il cerchio e partiamo da Roma, ancora una volta: per scrivere questo disco ti sei chiuso nella tua casa di Testaccio

Niccolò Contessa: Sì sono stato a casa, non ho fatto viaggi. Mi sono concentrato al 100% sulla musica, scrivendo al piano tutti i giorni. Ho scritto la colonna sonora di un film (“La felicità è un sistema complesso”, ndr) e mi è piaciuto moltissimo, è un’attività che mi piacerebbe affiancare alla mia. Se devo immaginare una cosa che mi piacerebbe fare oltre i dischi, sono proprio le colonne sonore. In questo periodo un sacco di cantautori “indie” si stanno buttando sulla dimensione autoriale, io invece mi vedo più nel cinema.

Il piano sul quale hai passato gli ultimi mesi l’hai ereditato da qualcuno?

No, ho comprato un piano digitale e ho iniziato a suonarlo tutti i giorni. Quella è stata la più grande novità, ovvero impormi una disciplina musicale. Una cosa che mi ha cambiato tanto e mi ha fatto molto bene. Ho imparato a suonarlo con un insegnante al quale devo molto, che si chiama Fabrizio Foggia. Non avevo mai studiato veramente uno strumento, e per la prima volta mi è sembrato di vivermi bene questa cosa di suonare. Ho sempre avuto un sacco di ansia riguardo questo argomento: da quando è uscito il primo disco mi sono sempre sentito come se dovessi giustificarmi per quello che stavo facendo, perché comunque non ero capace di cantare, di suonare, mi dicevano che facevo pezzi tutti uguali. E quindi ho pensato che dovevo rimediare. Alla fine è una grande fortuna che non capita spesso, questa di fare musica che possa arrivare a tutti. Ho smesso di avere paura, di fuggire, di vergognarmi; ho cercato di farlo, anche professionalmente, mettendomi sotto, non solo con il disco. Anche per la colonna sonora è stato difficile, perché non sono un musicista né tanto meno un compositore, però mi sono sforzato e ho provato a farlo. Pure il lavoro su Calcutta non è stato semplicissimo ma alla fine è stato portato a termine anche quello, non solo per merito mio, ovvio.

Hai suonato molto il piano, ma nel disco non ci sono strumenti “veri”

Un po’ l’ho fatto per comodità, un po’ perché c’era questo sintetizzatore che mi piaceva molto. La scelta era di semplicità, a me piace usare poche cose. Poi lo strumento vero non fa parte della mia vita: se io passo mesi da solo in una stanza con il sintetizzatore, perché dovrei registrare un disco con la big band? Per questo ho fatto un disco che suonasse esattamente così.



«Per la prima volta mi è sembrato di
vivermi bene questa cosa di suonare» Niccolò Contessa

È strana questa cosa che hai detto prima sull’ansia di non saper cantare o suonare; ho sempre avuto la sensazione che le critiche sui tuoi lavori fossero concentrate più sui testi e i contenuti

Per come la vivevo io, le critiche ai contenuti arrivavano perché magari la gente non riteneva nemmeno importante criticare la musica, lo dava per sottinteso. Se esce un disco di Guè Pequeno è difficile che vengano fatte critiche strettamente musicali, ma non perché la gente pensi sia un genio della composizione. Allo stesso modo non credo che la gente mi criticasse i contenuti perché desse scontato che la musica fosse bellissima, semplicemente non era quello il punto.

Questa cosa dell’ansia che hai tirato fuori, forse involontariamente, mi ha fatto venire in mente che è proprio l’ansia uno dei pilastri del disco: attacchi di panico…

Quelli sempre, non ce li facciamo mai mancare (ride)

…assieme alla depressione e a sensazioni non proprio piacevoli, che però poi si risolvono in uno sbocco positivo. Basti pensare che il disco si chiama “Aurora”: una parola ariosa, bella, naturale.

In realtà fino a pochissimi mesi fa volevo chiamare il disco “Mondo cane”, che è un’espressione comunque rimasta nei testi. Lo vedevo come un lavoro super nero, molto scuro, molto crepuscolare. Poi però alla fine mi è sembrato che… l’ansia, mi sembra che sia la malattia del secolo (ride), mi sembra che le persone che ho intorno ne soffrano tantissimo. Se devo individuare un problema che accomuna tutti i miei amici e conoscenti è proprio l’ansia: l’ansia da prestazione, l’ansia di piacere, l’ansia di non piacere, come verrà recepito quello che fanno; è una cosa che ci caratterizza tutti. Io non amo fare discorsi generazionali, ma in questo caso è evidente. Altre generazioni magari sono state segnate dalla paranoia, da altri tipi di problemi. Magari chi è cresciuto negli anni di piombo poteva avere più paure. Mi sembra invece che l’ansia, nel senso della paura di qualcosa che dovrà succederci ma che non sappiamo bene come e se la sapremo affrontare, sia una cosa da cui non scappo io e non scappano tutte le persone che ho attorno. Però poi mi sembrava troppo facile fare discorsi nichilisti e pessimisti, è una scappatoia. Per questo il disco si chiama “Aurora”, per questo ho cercato di evitare il tono della predica, del piangermi addosso, che è una cosa che abbiamo tantissimo in Italia, sia tra chi suona che tra chi scrive. Tutti quanti prima o poi tendono a dare lezioni di vita attraverso le canzoni. Una tendenza che io ho cercato di eliminare in questo disco.



I Cani - Niccolò Contessa, foto di Federico Ciamei «Tutti quanti prima o poi tendono a dare
lezioni di vita attraverso le canzoni»
Niccolò Contessa


Nel disco ci sono spesso considerazioni sugli uomini e sull’umanità. Per certi versi è un lavoro molto oscuro, ma si capisce che c’è un lieto fine o comunque una vita d’uscita. Ma qual è? Te lo chiedo perché non sono riuscita a focalizzarla molto bene

Neanch’io (ride). Però c’è, da qualche parte c’è. Alla fine secondo me non c’è molto da giustificare: come la metti la metti, gli esseri umani nascono, vivono (se gli dice bene), e muoiono. Dipende tutto da come scegli di pensarla. E io ho fatto la scelta di non deprimermi, di vedere il mondo come un posto che ha ancora speranza. Ma non riesco a spiegarti perché, se lo facessi sarebbe una predica. Invece è solo una scelta personale. Alla fine per me c’è la luce, sì, perché scelgo di vederla.

Sono almeno tre anni che continua a girare un articolo che prova a spiegare perché la nostra generazione è infelice: la teoria è che sin da piccoli ci hanno insegnato che siamo unici e speciali e che nella nostra vita dobbiamo realizzare i nostri sogni, quando non è assolutamente così. Abbiamo aspettative spesso irrealizzabili e lo scontro con questo muro genera ansia

C’è anche quello, come c’è anche l’11 Settembre, l’Isis etc. assieme al discorso molto terra terra e banale dei contratti, del fatto che oggi per noi è molto difficile avere un lavoro mentre i nostri genitori erano guidati e rassicurati dal fatto che a 30 anni avrebbero avuto un impiego serio attorno al quale sviluppare la propria vita. Però sì, c’è anche questo fattore di crederci speciali. La velleità oggi è un tema che mi è abbastanza caro perché è una cosa che mi sta un po’ sul cazzo. Mi dà fastidio la mitizzazione della creatività e dei lavori "creativi" e mi rendo conto che a dire questo posso sembrare ipocrita visto che faccio il musicista. È una cosa che inevitabilmente ti espone, perché sei su un palco e magari pensi di avere qualcosa di interessante da dire. Però proprio per questo cerco di farlo in maniera onesta e senza mettere al centro me stesso, ma le cose che faccio. Non mi sembra di aver attirato l’interesse su di me personalmente, non ho social, non mi faccio selfie…

Ti sforzi di non avere una presenza online perché sai che genererebbe potenziale fuoco nemico oppure proprio non ti interessa?

Entrambe le cose. Un po’ è la paura, l’ansia di cui parlavamo prima. E un po’ perché non mi viene proprio. Ogni volta che sto sui social, quando sto per scrivere qualcosa mi dico “vabbè ma alla fine cosa aggiungo?” Stessa cosa con i selfie, mi sembra che con uno schiocco di dita si faccia troppo rumore.

Il pezzo che apre l’album in qualche modo parla anche di questo. È una canzone d’amore ma anche di un cinismo sfrontato, volontario, ostentato. E dice anche delle cose vere.

“Questo nostro grande amore” è nata da una conversazione vera, un dialogo tra il serio e il faceto con la mia ragazza riportato abbastanza fedelmente nella canzone. Mi sembrava che incarnasse un qualcosa, è come se nell’aria quella cosa di cui parla la canzone esista davvero. Esiste perché Fedez e la pischella sono appesi nelle stazioni mezzi nudi e stampati alti 15 metri. L’autenticità del sentimento esiste. Però al tempo stesso c’è qualcosa nel modo in cui noi interpretiamo la realtà per cui ci piace mostrare quel nostro sentimento e ci piace ricevere conferme sociali, e questo non necessariamente vuol dire che quel sentimento non sia vero, è solo una cosa… strana. Non vuol dire che sia cinica, so solo che è una cosa che c’è nell’aria, che esiste. Ed è il motivo per cui la canzone comunica qualcosa. Io cerco questo: cosa capto, che esiste?

Non le schifi un po’ le persone che espongono totalmente la loro vita privata online?

Dipende da come lo fanno. In fondo anche quello che faccio io è qualcosa di simile: prendo cose della mia vita e le metto in canzoni che ascolteranno migliaia di persone. Quando ho visto Fedez e la donna io non ero inquietato. Un po’ sì ovviamente, però non è che ho pensato “che merde questi due”, ho pensato a quanto fosse strano che adesso esista una cosa del genere. Pensa se dovessi spiegarlo a mia nonna: c’è uno che fa il rapper, ha 25 anni e fa più soldi con i tweet sponsorizzati che con i dischi. Un rapper che arriva a unire la sua vita privata e il suo lavoro in un modo in cui non si riesce più a distinguere l’una dall’altro. Questa cosa è talmente interessante che non lo so se mi schifa, mi attira più capire cosa ne tiro fuori che domandarmi se mi fa schifo o meno. Comunque no, non mi fa schifo, altrimenti non ci farei una canzone. Le cose che mi fanno davvero schifo non mi interessano.



I Cani - Niccolo Contessa, foto di Federico Ciamei «Le cose che mi
fanno davvero
schifo non mi
interessano»
Niccolò Contessa

Cos’è allora che ti fa veramente schifo?

La retorica di sé stessi mi fa un po’ schifo.

Ma non torniamo al discorso precedente, così?

Sì, è vero. Ma mi sembra che ci sia qualcosa di talmente smaccato che alla fine passa al sublime. È un po’ lo stesso discorso per cui il brutto è brutto, ma quando è davvero brutto diventa kitsch. Per cui Fedez che fa quella cosa lì mi sconvolge, mentre del farsi il selfie in spiaggia anche sticazzi. Infatti non scriverò mai nulla sulla gente che si fa i selfie in spiaggia.

Le canzoni di questo album danno l’idea che tu abbia fatto una lunga auto-analisi. A un certo punto canti “quindi basta cercare la notte su Google il mio nome”. Per dire questa cosa in una canzone ci vogliono le palle, o no?

Più che fare un’autoanalisi, mi è servito mettermi a suonare tutti i giorni. Se io fossi stato a guardarmi allo specchio tutti i giorni, a sfogliare le mie foto, a cercare il mio nome su Facebook – non credo che ne avrei cavato molto. Il mio modo di tirare fuori cose buone è proprio pensare ad altro. Mi sono dato una disciplina decidendo di suonare tutti i giorni, lavorando a una colonna sonora, qualcosa che non necessariamente esprime me stesso, e non necessariamente porta avanti un discorso che ho deciso io, ma nella quale al contrario devo contribuire a finalizzare la visione estetica di qualcun altro. Quando fai tutto questo percorso poi alla fine ti svegli, ti metti al piano e scrivi quella canzone. Per me ha funzionato così: più che guardarmi dentro, guardare fuori. Pensare a tutto il resto del mondo, a tutto quel che stava fuori. È stata anche un po’ una reazione al secondo album, perché molte persone (tra le quali anche voi) mi hanno detto “con il primo disco hai raccontato il mondo, con il secondo hai parlato di te stesso”. E in parte avevano ragione.

Non c’è niente di male, però.

Sì, non c’è niente di male, ma a un certo punto diventa tutto un po’ vuoto. Se lo fai per troppo tempo entra in gioco un po’ l’effetto del principio di indeterminazione: se guardi una cosa troppo a lungo in qualche modo la modifichi. È una cosa che è successa a molti artisti: se esordisci parlando di te e il risultato è fico perché ha una certa spontaneità e freschezza, se continui a guardarti dentro arrivi per forza di cose a un punto in cui la tua vita è talmente assorbita da quella cosa lì che si crea un loop, un feedback continuo. Per questo ho deciso di uscire da quel meccanismo. Questo è un disco in cui non ci sono quasi mai riferimenti alla mia persona, alla mia età, al fatto che vivo in una certa città, non ci sono mai riferimenti a Roma, mai, mai! (ride)



«Questo è un disco in cui non ci sono
mai riferimenti a Roma, mai!» Niccolò Contessa

Hai portato avanti questo tipo di operazione mettendo di mezzo la scienza, la matematica, la fisica, l’astronomia… mi hai fatto googlare cosa cazzo sia “Calabi Yau”, oltre che il titolo di un tuo nuovo pezzo. In un certo senso l’hai presa da molto lontano: cantare dell’umanità intera, dell’universo e delle sue leggi. Una cosa ambiziosa, se vuoi.

Quella è stata una riflessione a monte. Se io avessi deciso una cosa a tavolino, tipo evitare di parlare della mia città, se avessi già scritto tutte le canzoni e alla fine fossi andato a togliere i riferimenti a Roma sarebbe stato un po’ forzato. Per me non funziona così. Per me il tutto assomiglia più al pilotare una nave, è una cosa molto più lunga. C’erano cose dei dischi precedenti che mi sembrava avessero dei limiti che non si potevano spostare più in là di così. Così ho iniziato ad entrare in un ordine mentale del tipo “ok cerchiamo dei riferimenti altrove, cerchiamo un mondo che non è necessariamente quello romano, cerchiamo cos’altro mi interessa, cos’altro esiste”

... e a te interessa la matematica

(ride) Mi interessa la matematica, la fisica, ho un vago interesse per il Buddhismo, ma non mi avventuro oltre. Preferisco parlare di questo. Però sono sempre processi lunghi e poco pensati, non c’è mai stato il momento in cui ho deciso questa cosa qui. Quando avevo tutte le canzoni le ho riascoltate e ho detto “oh fico, non c’è la parola Pigneto, mai!” (ride). Ero contento di questo.

In “Non finirà” dici che le uniche cose che non finiranno mai sono il senso che la storia sta finendo, il senso che sia tutto un po’ già visto, il senso che stia per scadere il tempo...

È un po’ una follia dirlo, ma quello forse è il pezzo più politico de I Cani (ride) perché è un pezzo che parla del capitalismo, o meglio parla anche di quello. Mi sembra che ci sia qualcosa nel modo in cui viviamo da consumatori che ha molto a che fare con la ciclicità. C’è un grande scarto tra una ciclicità che esiste e la condizione, o meglio la sensazione, di essere alla fine di qualcosa, che è una convinzione anche un po’…

... grillina.

Sì, un po’ grillina ma anche un po’ vanitosa nel pensare di essere alla fine della storia. In realtà tutte le generazioni sono state convinte di vivere in un’epoca di decadenza. Adesso magari ci sembra di vivere in un mondo particolarmente pauroso e spaventoso perché succedono cose come gli attentati di Parigi, ma se pensi alla Guerra Fredda, se pensi alla Prima o alla Seconda Guerra Mondiale, se pensi alla Guerra dei Trent’anni, se pensi alle Invasioni Barbariche… abbiamo sempre avuto dei momenti in cui pensavamo di essere sull’orlo dell’estinzione. E questo secondo me ha molto a che vedere col mercato: come quando ricevo la mail di Apple che mi dice “arriva l’iPhone 6s, è cambiata solo una cosa. Tutto” e in realtà non è cambiato assolutamente nulla, perché questo telefono è identico a quello dell’anno scorso… però te lo compri lo stesso. Quella cosa ti colpisce, insomma ti piace pensare di essere nel presente

O ti piace pensare di non rimanere indietro

Esatto. Il futuro un po’ fa paura, ci mette ansia, ci sconvolge e ci mette terrore. Ma dall’altra ci diverte, ci fa provare un brivido, ed è la cosa che speravo di raccontare in quella canzone. Pensare al futuro è divertente ma anche inquietante

Parliamo invece di “Proto-bodhisattva”. Un titolo un po’ complicato...

Pure quello mi è venuto spontaneamente: avevo la linea melodica, stavo cantando e mi è venuto subito da dire quelle parole lì, “proto bodhisattva”…

...parole non così immediate, converrai con me

(ride) No, però in quel periodo stavo leggendo un po’ di cose sul Buddhismo e quindi la parola mi risuonava nella testa. Il bodhisattva è colui che è nel percorso per diventare Buddha. Nell’aggiungere quel “proto” invece mi riferisco ad una condizione ulteriore, perché come essere umano sento di non essere nemmeno un bodhisattva, sono sulla strada per diventarlo. Da occidentali siamo tutti un po’ attratti dal Buddhismo, secondo me. Viviamo nell’epoca del desiderio, giri per strada e sei pieno di immagini sessuali, cose che puoi avere, cose che puoi possedere. Il Buddhismo ti offre una grossa scappatoia. Io però mi sono sentito sempre molto ipocrita; la vita che faccio è talmente lontana che so che non la potrei veramente e profondamente cambiare. per questo mi sento un “proto” bodhisattva. Capisco che esiste quella cosa lì, ma mi ci sento lontanissimo

I Cani - Niccolò Contessa, foto di Federico Ciamei

E tutte le varie domande che fai nella canzone, sulle droghe e sulla fica?

Mi sembra che siamo tutti belli impicciati con queste cose qua. Di persone che possono rinunciare a droghe e sesso io ne conosco pochissime, forse nessuna. E sono anche cose che sono tutto sommato poco necessarie a noi come esseri umani. Perché se un essere umano lo vedi come un animale comunque è strano che si debba drogare e debba vivere il sesso in maniera così totalizzante

Più che vivere il sesso in maniera totalizzante, mi sembra che al momento in giro ci sia un calo di libido totale. Vuoi la sovraesposizione del sesso, lo stress della vita quotidiana, la stanchezza… forse è iniziata un’epoca in cui il sesso comincia ad essere sottovalutato

Io dico che in qualche modo è una cosa che fa parte del discorso sociale. Il sesso viene usato per venderti delle cose, quindi fa parte del commercio che è la base del mondo in cui viviamo, più del diritto. Capisco che possa dare questo senso di assuefazione, o noia, o schifo. Ormai c’è poco di trasgressivo nel sesso.

Esatto, rischia di diventare una cosa quasi passé. Molte coppie stanno iniziando a prendere alla lettera il “Netflix & Chill”, sostituendolo a una sana scopata

Però anche quello secondo me ha molto a che fare con l’ansia. Se mi devo confrontare con la modella che vedo sul muro, o con il pornoattore che vedo su YouPorn, ho l’ansia e preferisco davvero fare altro, tipo guardare Netflix.



I Cani - Niccolò Contessa, foto di Federico Ciamei «Il futuro fa paura
ma dall’altra diverte,
ci fa provare un brivido»
Niccolò Contessa

Hai detto prima che ti sei interessato recentemente al Buddhismo ma preferisci non approfondire il discorso. Ma c’è una religione che ti sembra quantomeno coerente?

Tutte sono coerenti a loro modo, tranne forse Scientology e quelle create per rubarti dei soldi (ride). Ma per me c’è un discorso più trasversale riguardo le religioni: mi interessa il misticismo, che esiste e mi attrae in tutte le religioni. Nel Buddhismo perché Buddha è un mistico, così come nell’Islam, e nel Cristianesimo con San Francesco. Che poi è un discorso che fanno anche i californiani fatti di acido, se vuoi (ride). Comunque quello che mi interessa è guardare il mondo in maniera più unitaria che individualista, considerare Dio più come l’unione di tutti gli uomini che come un vecchio con la barba che si incazza.

In tutto ciò non mi hai ancora spiegato a cosa sia riferito il titolo “Calabi Yau”. Ho visto che su Wikipedia c’è una bellissima immagine dal sapore post-internet, ma non ho capito molto

In realtà non l’ho capito manco io, ma in sintesi sono degli oggetti geometrici. Secondo alcune teorie delle stringhe, lo spazio tridimensionale che vediamo (ovvero le tre dimensioni più il tempo) in realtà sono un’approssimazione, perché in ogni punto dello spazio che noi vediamo ci sono dei micro-spazi di 14 o 22 dimensioni, tutte arrotolate tra di loro. È come se lo spazio tridimensionale che vediamo sia in realtà un mosaico fatto di minuscoli spazietti di tantissime dimensioni che non possiamo vedere. Insomma, come vedi non lo so spiegare bene nemmeno io. Ma se devo decidere come impiegare la mia vita, in astratto, penso sia più interessante impiegarla a pensare a una cosa del genere che a farmi i selfie e venderli a Ferrovie dello Stato per farne una pubblicità.

Non accetteresti mai uno sponsor?

No. Al massimo accetterei uno sponsor tecnico, se la Dave Smith mi regalasse un sintetizzatore lo userei. Ma non ha un distributore italiano quindi niente (ride). A parte gli scherzi, non accetterei mai uno sponsor, mi sentirei falso. Secondo me la comunicazione che stabilisci con una persona quando le provi a vendere qualcosa è inevitabilmente falsa. Non vorrei pensare di parlare a chi mi ascolta nel modo in cui ti parla un venditore, perché diventerei in parte un venditore di qualcosa. E io non voglio vendere un cazzo, oltre la mia musica.



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