Una band che, in meno di un lustro, ha saputo conquistarsi - a pieno titolo - il rispetto di coloro che credono ancora nel sacro fuoco del rock'n'roll.
2 lp in 4 anni, 1 ep omonimo e uno split/ep condiviso assieme ai New Candys: questo il ruolino di marcia dei trevigiani Kill Your Boyfriend che, in meno di un lustro, hanno saputo conquistarsi - a pieno titolo - il rispetto di coloro che credono ancora nel sacro fuoco del rock'n'roll.
La premessa potrebbe sembrare leggermente azzardata ma, nella scena musicale della Penisola, trovare band di questo calibro in questo preciso momento storico è davvero un terno al lotto. Piace, in particolar modo, l'ortodossia della proposta: inevitabilmente derivativa da una parte ma al contempo caratterizzata da una precisa scelta artistica fin dagli esordi. Dopo l'esperienza con Nicola Manzan del secondo disco, stavolta si affidano alle orecchie di Luca Giovanardi per trovare una forma diversa (non nuova, attenzione) rispetto a quanto pubblicato finora, mantenendo però quelle coordinate di base tipiche del loro sound. Continuano a fare capolino, inesorabili, i Velvet Underground, soprattutto per quell'approccio noise delle origini che li avvicina più alla band di Lou Reed ("Martin") che ai Sonic Youth. Nell'occasione, magari grazie alla presenza del chitarrista dei Julie's Haircut dietro al banco, accentuano maggiormente l'utilizzo di sintetizzatori e tastiere, portandosi spesso nei pressi del Suicide sound ("Alan", "Frank"). Rispetto alla band di Alan Vega e Martin Rev non vanno però per sottrazione, anzi tendono a ingrossare il suono mantenendo inalterata quella sfumatura tra il dark, l'industrial e la new-wave che rappresenta, oggi più di prima, una sorta di marchio di fabbrica. Di tutto ciò, "Neil" può essere considerata la traccia portante, una sorta di solco da cui KYB non potranno prescindere nei futuri lavori.
Sia chiaro: quando parte "Lewis" lasciano ugualmente il segno in maniera altrettanto efficace, ma sul fatto che i quattro sappiano come costruire una canzone dalle ritmiche serrate (ascoltare anche la conclusiva "Rudolf") non abbiamo mai avuto dubbi, essendo da sempre una specialità della casa dal valore imprescindibile. Insomma, ancora una volta un grande album per un gruppo che, probabilmente, avrà vita facile più all'estero che non nell'equivalente nicchia italiana - dopotutto l'opzione più auspicabile fra le due. A noi/voi non rimane altra scelta che ingrossare le fila dei patri confini andando a farci/vi sanguinare le orecchie dal vivo alla prima occasione utile.
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La recensione The King Is Dead di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-09-29 09:30:00
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