Gazebo Penguins
Legna 2011 - Rock

Legna

Ci sarebbero tanti punti da aggredire parlando di "Legna". Come la storia di questi tre ormai ex ragazzotti, che nel bel mezzo di quell'emiliana provincia, "di notti d'attesa di non so più", si inventano una stramba ragione sociale, Pinguini del Gazebo, e si mettono a fare una roba che prima è semplicemente calarsi gli strumenti sul collo e far casino, e poi diventa nevrotica miscela di post punk, emocore e visceralità a gogò. O come il fatto di suonare tra i confini di Correggio e Zocca, patrie dei santi numi dell'italica estetica del rock, una stramba coincidenza che non può che farti spuntare un sorriso sulle labbra.

E ancora, ci sarebbe da sottolineare quell'altra strana convergenza dell'humus territoriale, che il Po e la pianura padana sono di quei posti intrisi di romanticismo e melanconia, si sa, e allora i Gazebo, come tanti altri, che a citarli passeremmo nottate intere, decidono di spostare un po' il baricentro, sporgendosi a guardare oltreconfine e oltreoceano e rimanendone folgorati. Succede poi che nel bel mezzo di quella campagna e dei vicoli ciechi, loro finiscono con l'aprirci uno studio di registrazione, l'iGLOO, che è una casa colonica che col tempo diventa meta obbligata di mezza scena hardcore & punk & with attitude tricolore. I concerti, i party, la baldanza, il movimento.

Se c'è una cosa che ammiro di quella way of life sotterranea e DIY, attorno al quale gravitano band come FBYC, TDOAK e tutto il miglior marciume padano, Gazebo Penguins compresi, è il misto di sensibilità e sfrontatezza col quale finiscono irrimediabilmente per affrontare le cose. La genuinità della legna. O la semplicità della montagna come direbbero i Verme. Ecco, in questo album ce ne sta a pacchi. Ed è la prima cosa che senti, a pelle, come quelle persone che vedi per la prima volta e già capisci che ti potrai fidare. Abbassi la guardia e getti a terra tutte le difese. "Legna" ti si scaraventa addosso, ti circuisce a forza di sguardi e una volta entrato in contatto empatico non te ne stacchi. Rimani fermo, conti i tempi dispari e i tempi impossibili, provi a segnare la parole, che sono in italiano e allora già ti immagini i sottopalco a urlare in faccia a Capra, Sollo e Piter le canzoni a memoria. Non te ne stacchi. La prima volta l'ho ascoltato in macchina, da solo, volume a palla. Finché quella maledetta pioggia primaverile non è arrivata a presentarmi il conto, la tangenziale, il traffico e le buche del manto stradale sembravano essersi eclissate. Come uno che ti si siede accanto sull'autobus e inizia a parlarti sottovoce delle sue trincee (e chi mai lo fa più?). Un io, un tu, che al centro del suo universo racconta di tram persi alle sei in punto, calendari che segnano ricordi, salvadanai rotti e fughe dai tramonti. Ci sono certe aperture alla Shellac, l'espressività e il suono scarno e violento degli Young Widows, c'è Jacopo Lietti dei già citati FBYC, che oltre a curare tutto l'artwork del disco, fa anche un'ospitata in "Senza di te", e sono lacrimoni e trivellate al cuore. E ci sono le ombre invisibili, quell'amico che sembrava parlasse da dietro i muri, e otto fottuti pezzi. Ognuno con in dote un piccolo sorso di nolente e violenta quotidianità.

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