Dadamatto
Anema e core 2011 - Rock

Anema e core

Belle canzoni e, grazie ad un nuovo produttore, suoni potenti. Manca un po' quello spirito cazzone presente nei dischi precedenti.

Ci sono due novità: la prima è che i Dadamatto si sono affidati a Max Stirner (ha prodotto molti dischi importanti: l'esordio de Le Luci della Centrale Elettrica, l'ultimo di Nada, oppure, ed è il nome più utile per farvi capire il suono di questo album, “Andate a tutti a fanculo” degli Zen Circus). E' uno bravo, certo è invasivo, imprime il suo marchio su ogni cosa che fa. Con i Dadamatto ha amplificato un lato pop che nel precedente “Il derubato che sorride” si confondeva troppo con il noise rock: ci sono grandi cori, un piglio alla Violent Femmes e attacchi esplosivi. E' un bene perché i Dadamatto sanno scrivere belle melodie e bei ritornelli, con Stirner diventano enormi, potenti. Solo in alcuni casi (“Scilla e Cariddi”, “Il Netturbino”, “Canzone in 3D”) la struttura della canzone non è così forte e il gioco funziona meno: emergono più i testi, che non puoi proprio definire “comunicativi” e che con il pop c'entrano poco, anzi stridono.

I testi, appunto: non è roba lineare, si avvicinano più alla poesia o ad una filastrocca nonsense. Era così anche nei precedenti album, la novità ora (la seconda) è che hanno assunto un tono più serioso, quasi colto. Spariscono Mel Gibson, Tom Cruise, gli X-Mary e la Pausini e compaiono Gianni Vattimo, Nietzsche, Shakepspeare, Ercole, Ulisse, il poeta Sandro Penna, Sergio Citti e la sua “rassegnazione [che] all'eroismo non ha nulla da invidiare”; spariscono i cori napoletani (che facevano tanto trattoria) e arrivano nuove considerazioni filosofiche sull'uomo e sulla società. Ci sono ancora gli psicologi (verso i quali i Dadamatto sembrano avere una specie di ossessione), c'è il sesso nelle sue possibili varianti (omo, etero e trans), la morte, una generazione che va verso i trenta che può considerarsi già morta, il traffico, l'ulcera; e c'è la natura, il mondo degli animali e quello dei contadini. Come a voler contrapporre due diversi modi vivere, tutto molto interessante: solo che è poi difficile tirare le fila, capire dove inizia la critica e dove finiscono con l'autodenigrarsi; dividere l'ironia, l'autoironia e la tristezza, insomma.

In sostanza: è un disco emotivo che tende all'autistico. Non sa comunicarti nulla di più del chiudersi a riccio. Anche Bugo, ad esempio, non mette tre parole in fila che abbiano un senso compiuto ma capisco cosa mi vuole dire, con i Dadamatto non mi è così facile. E perdendo anche l'animo cazzone che c'era nei dischi prima, scopri di avere in mano un album triste, viscerale ma dal retrogusto disfattista, cinico.

Quindi: delle due novità, la prima, di sicuro, convince. Si sono messi in gioco e ora le canzoni suonano come devono suonare. La seconda, meno: quel bell'equilibrio tra stupidaggine e malinconia che ho sempre associato ai Dadamatto si è un po' incrinato. E' un bel disco, maturo, forse troppo.

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