Se il precedente “La caduta delle città del Nord” rappresentava per Andreoni una sorta di diploma di maturità cantautoriale, questo suo ultimo “Un nome che sia vento” può vantare a tutti gli effetti l’autorevolezza di un laurea specialistica. Nessuna lode o bacio accademico, ben inteso, visto che comunque durante il percorso il cantautore lombardo non si sottrae a confortevoli scappatoie liriche di facile presa, ciononostante rimane intatta, dopo l’ascolto delle undici tracce di questo piccolo gioiello autarchico, l’appagante sensazione di corroborante malinconia, perché una vita tutta rose e fiori, alla fine dei conti, annoierebbe chiunque.
Perciò, abbandonata la variabilità orchestrale dell’opera prima, Andreoni a questo giro inchioda tutte le sue disillusioni su architetture minimali di voce e chitarra, delegando a tastiere parsimoniose e intermezzi strumentali su 6 corde l’onere di tratteggiare visionari contorni. E’ un antagonismo placido il suo, quasi tibetano, fatto di rabbia soffocata e sognante solitudine – quest’ultima ben simboleggiata dal suo amore per l’Africa – poeticamente imparentata con il grande Bruno Lauzi o con l'ormai dimenticato Mario Castelnuovo, e con la bussola del cuore sempre orientata verso salvifici approdi deandreiani (“Un nome che sia vento”). E poi, come non crogiolarsi al sole della libertà ritrovata sul doloroso, quanto liberatorio, finale de “L’ultima parola”? (“Amor mio io me ne vado, non telefonarmi più”).
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