Il Teatro Degli Orrori
Il Mondo Nuovo 2012 - Rock, Noise, Indie

Il Mondo Nuovo

Poteva essere, doveva essere, ma non è. Il nuovo album de Il Teatro degli Orrori è discontinuo, a tratti noioso. Un complicato intreccio sul concetto di migrazione, pesante e con una verve comunicativa fin troppo debole.

"La morte non è nel non poter più comunicare, ma nel non poter più essere compresi". Pier Paolo (Pasolini) forse sarebbe d'accordo con me, per l'amarezza che lascia il nuovo disco del Teatro degli Orrori. Perchè una delle opere che più ho atteso, si rivela un potenziale capolavoro buttato al vento. Lo ammetto: non riesco a comprenderlo fino in fondo, ho faticato ad ascoltarlo. E se coloro che consideravi eroi della musica italiana, improvvisamente interrompono le comunicazioni con te, non può essere solo colpa tua. Il "Mondo Nuovo" poteva essere, doveva essere, ma non è. Un ottimo disco, solo un ottimo disco qualsiasi. E questo, per chi ha riscritto i parametri del paradigma rock-italiano-contemporaneo, è quasi imperdonabile. "Non illuderti: la passione non ottiene mai perdono. Non ti perdono neanch'io, che vivo di passione" diceva sempre Pier Paolo (Pasolini). Una passione tradita, da un disco al di sopra della media generale, da loro stessi ridefinita, ma al di sotto della loro media personale. La band di Pierpaolo (Capovilla) stavolta si scontra contro la sua grandezza, uscendone parzialmente sconfitta. "Dell'impero delle tenebre" aveva reso sublime l'impossibile fusione di noise-rock e canzone d'autore, tracciando una nuova direzione possibile. "A Sangue Freddo" era riuscito ad ampliarne la dimensione d'ascolto, portando il colore dove prima c'erano solo tenebre. Entrambi, a loro modo, pietre miliari. Da ascoltare d'un fiato, bomba su bomba. "Il Mondo Nuovo", purtroppo, non regge il confronto. E non perché mi aspettassi un disco uguale ai precedenti, tutt'altro.

Le intenzioni della band sono chiare: consacrare ed innovare il discorso musicale e letterario avviato in questi anni, attraverso un concept narrativo che ruota attorno all'idea della "migrazione", intesa non solo come il fenomeno degli immigrati, ma come metafora del vivere contemporaneo, nel quale gli individui cercano di fuggire dalla condizione di ingranaggio in un sistema globale. Un concept che parla di viaggi e di infelicità, di idiosincrasia sociale e nuovo progresso, di superficialità politica e violenza culturale, di contraddizioni sociali e cambiamenti possibili. Un destino individuale e collettivo che ci rende, tutti, migranti e ovunque stranieri, con alla base l'idea dell'uomo come divenire e non come semplice essere. Una migrazione geografica, ma soprattutto concettuale, per un disco non politico, ma colmo di riflessioni politiche. Pierpaolo Capovilla raggiunge il massimo della sua complessità e profondità letteraria, ma lo rinchiude in un effluvio narrativo che confonde e stanca. Carmelo Bene e Fabrizio De Andrè sono i principali punti di appoggio, ma traspaiono anche suggestioni di Gaber. Il risultato però manca di respiro e di immediatezza comunicativa. La ricchezza di storie e personaggi si trasforma in un limite. Si fatica a seguire il discorso, ad estrarre i concetti, a trovare identificazione. Un tessuto drammaturgico enorme, nel quale, a dispetto del sentimento universale alla base delle storie, affiora la noia.

Sviluppato in 16 canzoni, per quasi un'ora e venti minuti, il disco è suonato da manuale, ricchissimo di variazioni strumentali e colmo di ricami negli arrangiamenti: una produzione di livello superiore, in cui Giulio Favero imprime il solito marchio indelebile. Musicalmente "Il Mondo Nuovo" presenta due anime, chiaramente percettibili anche a primo ascolto. Da un lato il Teatro degli Orrori continua a seguire quella crudeltà, intesa nell'accezione di Artaud, necessaria ad esplorare forme di linguaggio pure ed intransigenti. Appaiono ancora i fantasmi di Jesus Lizard, Shellac, NoMeansNo e tutto il noise storico, anche se la compattezza tende ora a diradarsi, lasciando spazio a forme rock più accoglienti, sormontate dalla teatralità di Capovilla, sempre più in bilico tra canto e recitazione. La magniloquenza infernale delle chitarre ed il nervosismo ritmico si alternano così a momenti più composti, nei quali l'esposizione delle strutture melodiche appare evidente. Sul suo territorio tradizionale, il Teatro degli Orrori regala momenti di entusiasmo, ma alcuni riempitivi sono figli del mestiere, più che dell'ispirazione.

Ottima l'apertura del disco, con "Rivendico" e "Non vedo l'ora" che riprendono il discorso da dove l'avevano interrotto. Anche il primo singolo "Io Cerco Te", che mi aveva deluso inizialmente, cresce con gli ascolti (a parte quel "Roma Capitale sei ripugnante, non ti sopporto più" che fa molto mezze stagioni che non ci sono più). Affascinanti anche le tenebre dissonanti di "Doris". Andando più a fondo nel disco, si scopre l'anima nuova, sospinta da una voglia cambiamento, che porta il Teatro a volgersi verso orizzonti di comunicazione più ampi.
Toccante la fragilità acustica di "Ion", uno dei brani cardine del concept narrativo, dedicato all'operaio rumeno arso vivo dal suo datore di lavoro. Molti dubbi lasciano invece le suggestioni de "Gli Stati Uniti d'Africa", che apre su ritmiche africane ed esplode in discutibili distorsioni stile Korn. Perplessità anche per l'apparizione rapcore di Caparezza in "Cuore d'oceano", brano interessante più per lo strana ospitata che per l'effettiva bellezza, con tutto il rispetto per gli Aucan, anch'essi qui presenti. Discreto il crescendo strumentale nella sinistra recitazione di "Adrian". Le melodie morbide e sospese di "Monica" e "Pablo" ribadiscono invece la voglia di slegarsi dalla tensione strumentale, creando spazi più limpidi di ansia e sentimento: il risultato è però mediocre. Commovente invece la storia di "Nicolaj" che evoca immagini magnifiche "è così dolce tornare a casa e poi ritrovarti qui, nella cornice d'argento in cucina".

Un album di grandi ambizioni, fiero e coraggioso, che però tradisce le attese: la grandiosità dei precedenti lavori è raggiunta in pochi momenti; l'evoluzione verso nuove forme espressive è riuscita in parte. Ma è soprattutto il concept a fallire, perchè il messaggio si disperde, la comunicazione si impantana e lo skip diventa protagonista. La sfida era difficile, l'obiettivo è stato raggiunto a metà. D'altronde gli eroi non sempre ce la fanno.

 

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