Colapesce
Un meraviglioso declino 2012 - Cantautoriale

Un meraviglioso declino

Un po’ come se d’un tratto fossi costretto a cambiare lo scenario che si apre dalla finestra della mia stanza, che in questi giorni è perennemente concentrato a lasciarsi riempire di neve. Perché? Perchè “Un meraviglioso declino” è un disco che, prima di tutto, fa pensare all’estate. Pastoso, terso come solo il cielo in agosto riesce ad essere. Chè le stanze possono anche diventare delle barche, come canta Lorenzo in “Satelliti”, e allora ascoltare quest’oretta scarsa di canzoni è come divertirsi a tornare indietro sul caldo africano della NSA 339, il tratto autostradale indefinito che collega Catania a Siracusa, oppure rimanere fermi e indefessi di fronte dalle badilate di vento che i 3 km dello Stretto continuano irrimediabilmente a regalare. I vicoli di Ortigia, il sole acceso che nasce dai promontori di Fontane Bianche, i paesaggi che scorrono attraverso i finestrini della mia auto con lo stereo che mio padre si divertiva a settare, per ogni viaggio al mare, con le cassette di Battiato. Sicilia, insomma.

Quadri alla maniera macchiaiola (quelli dov’è la luce a dettare il ritmo), non semplici polaroid. Perché dentro questo album, che è poi l’esordio sulla lunga distanza per Colapesce aka Lorenzo Urciullo aka una delle menti pensanti degli Albanopower, ci sono cura e spessore d’altri tempi. Roba dall’afflato europeo, oppure, volendo, ascrivibile a quel modo retrò d’essere ‘cantautori’ che cammina lungo le linee tracciate da gente come Gino Paoli, Lucio Battisti o Herbert Pagani. Prima di tutto l’oggettiva bellezza delle canzoni, che si traduce nella ricerca di un meraviglioso equilibrio tra metrica e suono. Qualche esempio: “S’illumina”, che parte con dei cori alla Crosby, Stills & Nash, e poi si muove in un continuo crescendo, arrivando a un punto dove è un’epifania di accese chitarre acustiche che pare davvero di essere messi di fronte a un’alba; o ancora, l’orchestra di archi e fiati (guidata da Roy Paci) che entra in punta di piedi nel capovolgimento fossatiano di “La distruzione di un amore”, regalando il pathos ma soprattutto lo scheletro necessario affinchè il brano trovi un suo personale equilibrio, a metà strada tra un testo cinico e apparentemente fragile e la dimensione acustica che sta tra la tua pelle e quella degli altri. Mi fermo qui, ma ce ne sarebbero tanti altri da appuntare, esempi di un certosino gusto per i particolari, per il continuo gioco di sponda tra musica e parole, che pare quasi stiano in piedi l’una in funzione delle altre. È cosa rara, e di cantautori così attenti anche all’universo strumentale oggi, in Italia, ne trovate veramente pochi. Poi certo, alla lunga, emerge anche qualche difetto (a tratti l’impasto sonoro sembra non concedere eccessive variazioni al tema), ma è una minuzia a cui dopo un po’ ci si abitua.

Su tutto però, c’è un momento esatto che questo insieme di canzoni vorrebbe dipingere, calato in mezzo tra il senso di impotenza e l’insoddisfazione che si colora di sfumature quotidiane. Dei ragazzi (due, in sala d’attesa dall’essere definiti uomo e donna) che, con quello sguardo fisso a metà tra il melanconico e il disilluso, si guardano attorno con gli occhi lucidi (il bianco della libertà, il nero della prigionia) e invece di scappare altrove vanno a sedersi in un limbo. Indefinibili, o forse indefiniti, con i cassetti pieni solo di carta straccia e il destino appeso a sforzi di fuga che, inutile che ve lo dica, risulteranno più che vani: una giornata al mare, altri film stretti in mano, i bombardamenti ideali dei giorni di festa. Ecco, il finale lo sapete già: i barbari continueranno a sprofondare trionfanti sui loro troni, i salotti di rivolta accoglieranno altri visi stanchi, l’abitudine richiuderà tutte le valigie. Tredici frammenti di un’unica storia, che a tratti è un po’ come mettersi seduti di fronte a uno specchio. Potrebbe farvi ancora più male, o, finalmente, farvi sentire adatti a misurarvi, non più di spalle, col mondo.

È, in questo senso, un disco dall’onestà disarmante. Un esordio bello, potente, con la giusta messa a fuoco. Merita fiducia e tanti applausi. Dategli lo spazio che si merita.

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