Prendersi cura di sé, dell’altro da sè, di ciò che vive intorno, senza tradirsi, senza sbiadirsi. Forse risoluzioni esistenziali allo specchio. Di certo una voce d’incanto, una chitarra e una lieve linea di basso che rispondono all’arte di Livia Ferri.
Romana di nascita, americana di adozione cantautorale, la ragazza si spinge fin nel profondo folk statunitense e realizza un disco a pieno titolo “acoustic lady”. Per intenderci una Ani Di Franco de noantri, badate bene però: senza scendere di livello, senza scadere nel ripetuto. Solo più intimista e meno politicizzata. "Taking care" è l’album dell’esordio, concepito e realizzato con poche risorse in ambiente domestico, chiuso e protetto da sentimenti privati, custoditi. Una tendenza lo contraddistingue: non immobilizzare l’arte con il business, ma rendere le canzoni unici prodotti di un artigianato musicale fatto in casa, battuto eppur ricercato; un tepore lo attraversa: l’essere donna, voce e parola di donna. Così le liriche appaiono forti e dolci, a volte spietate, senza compromessi, autocompiacimenti, referenzialità. Si animano di pathos e fantasia e i suoni rievocano Aimee Mann, Sheryl Crow, Carole King, Beth Orton o Tanita Tikaram. Ascoltate "Hopefully", "In my dream", "Homesick", per citarne solo alcune, e ve ne renderete conto. Già perché se a scrivere e a cantare è una donna risulta bene una cosa: non parla di amori finiti riferiti a qualcuno in particolare, ma sempre in rapporto agli effetti prodotti, alle conseguenze lasciate dentro. Così come per le multiformi esperienze di vita che vive. A nervi scoperti, Livia Ferri: un’anima grintosa dalla pelle d’angelo.
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