Vitrone
Piccole Partenze 2013 - Cantautoriale, Pop rock

Piccole Partenze

11 tracce noiose e che - a tratti - fanno cadere nello sconforto.

Nel 2014 - anche se ormai è prassi da almeno 10 anni a questa parte - siamo ormai tutti consapevoli che per registrare e pubblicare un disco servano davvero poche risorse. Anzi, quasi sicuramente la percentuale del budget totale destinata a ciò che serve per registrare materialmente le canzoni, è andata via via assottigliandosi.

Faccio questa premessa perché mi sforzo per arrivare a comprendere tutto; ad esempio posso capire la voglia di dare una forma, che sia fisica o meno, a ciò che l'artista produce, ma non ammetto che si debba arrivare a pubblicare comunque qualsivoglia opera dell'intelletto. E nel caso specifico di Vitrone e del suo esordio rientriamo in pieno in questa casistica. Voi che state leggendo, da bravi assertori della teoria del dubbio, starete già pensando alle attenuanti del caso - tipo che trattandosi di un esordio non bisogna essere necessariamente così severi. E invece, pur parlando di un'opera prima, per Gennaro Vitrone non costituisce certo una novità la pubblicazione di un disco, avendo già macinato - musicalmente parlando - un bel po' di chilometri, partendo dal metal per poi passare per all'hard-rock e al folk fino ad arrivare fondamentalmente al cantautorato. Insomma, la classica deriva di molti artisti che col passare degli anni virano verso lidi più tranquilli (e, sia chiaro, non ci vedo nulla di male in questa metamorfosi).

Non conoscendo quindi le tappe precedenti di Gennaro, l'ascolto di "Piccole partenze" avviene senza pregiudizi di sorta. E con l'iniziale "Inverno" l'album sembra partire col piede giusto: Vitrone appronta una base new-wave sulla quale strizza l'occhiolino a certe atmosfere del Battiato ultimo periodo. Va da sé che pensi subito di avere a che fare con un artista che sappia quantomeno il fatto suo; quando invece parte la seconda traccia - e il Nostro inizia a declamare versi come "Se solo lo vendessero il corraggio / vorrei regalartene una scorta immensa / e una rondine che porti il sereno per sempre" - rimani basito e pensi a un momentaneo passo falso, ché la costruzione musicale del pezzo dopotutto è anche piacevole.

Con la successiva "Ti ritroverò" inizia invece ad accadere il peggio: "L'orologio all'incontrario segna il tempo dei ricordi che poi dovrà finire / e ti ritroverò nella pioggia che batte sui vetri / tra le pagine di un libro, fra le pieghe di di un cuscino e il caffè bevuto a piccoli sorsi". Non commento oltre, perché a questo punto la discesa diventa sempre più ripida e non so più cosa immaginarmi per i brani a seguire; ciò senza contare che, mano a mano, anche gli arrangiamenti si imbruttiscono, rendendo così l'ascolto ancora più pesante.

A questo punto passerei volentieri la mano, ma arrivando il momento della title-track mi sembra giusto tenere accesa una piccola speranza; peccato che già il pesantissimo prologo recitato complichi le cose, ma nonostante l'ostacolo arriviamo ad ascoltare versi come: "Partenza / il rumore della cerniera e la valigia che chiude / stazione, treno, tante persone, un altro libro da finire / dal finetrstino paesaggi autunnali, distese di campi che passano velocemente / velocemente passano".

Getto la spugna, anche se la deontologia mi impone di arrivare in fondo. Lo faccio, ma vi garantisco che proseguendo nell'ascolto proprio nulla riuscirà a convincermi della bontà di questi 11 pezzi. Ma vi era già chiaro fin dall'inizio, vero?

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