Diventa difficile credere che gli Auden siano stati fermi 10 anni prima che V4V tirasse fuori dal cassetto quel piccolo capolavoro che è “Love is conspiracy”. Io, che nel 2002 mi collegavo a fatica su un 56k per verificare a giorni di distanza se fosse davvero morto Layne Staley, ero anni luce lontana dalla folgorazione che quell'ep mi avrebbe regalato 10 anni dopo. E come in un finale lieto, gli Auden incidono un altro disco, e per riprendere le fila del discorso, diventa difficile credere che siano stati davvero fermi 10 anni. È più facile, naturale, per gli altri musicisti addirittura consolatorio, credere che in questi 10 anni si siano visti ogni sabato pomeriggio in sala prove, a tirare a lucido questi otto brani del ritorno (in free download qui). Non perdono neanche un grammo del sentimento profondo che sapevano trasmettere nel decennio scorso, e al confronto col precedente ep mettono subito in chiaro che così come nel 2012 funzionavano ancora il suono e l'intenzione del 2002, possiamo prevedere che “Some reckonings” funzionerà ancora, come suono, come intenzione, nel 2025.
La spiegazione non è da cercare in filosofiche disquisizioni su quanto il futuro fosse già scritto nel passato, ma piuttosto nel fatto che questo tipo di emocore ha un'estetica che resiste al tempo e ai confini geografici, riunendo tanto gli USA di entrambe le coste, quanto il math inglese, fino all'Italia e al Giappone. Quello che aggiungono gli Auden è un'abbondante oncia di sentimento.
Se le coordinate musicali sono le stesse, qui li ritroviamo forse più maturi, soprattutto nell'uso della voce, che non è più quella di un ragazzino svogliato che metteva il cuore nel pigiama, ma quella di un uomo che non rinuncia a parlare con la franchezza dell'adolescenza. E il punto di vista cambia, e la sincerità viene filtrata dalla consapevolezza.
Basterebbe dire della tripletta iniziale per inquadrare il disco: “The day of reckoning”, col declamato à la Ian MacKaye; “Next regrets”, che per il riferimento a Ian Curtis diventa un'ideale what if; “False restart”, che è il ponte tra gli Auden di ieri e gli Auden di oggi. "The Winter of Two Thousand and Ten" è semplicemente epica. La conclusiva “Curtain” è la vera novità: rarefatta e cupa, con un incidere spossato e circolare, fino alla lunga coda straziante; una toccante lettera che ognuno di noi ha da indirizzare a qualcuno, e leggendone il testo penserete a quel qualcuno. Ognuno di voi penserà a qualcuno.
Gli Auden sono forse la rappresentazione più radicale, autentica e potente dell'emocore italiano, benedetti da una presenzialità estetica che dura da quasi vent'anni e che fa dei loro dischi dei veri oggetti di culto a cui dedicare ripetuti ascolti per perdersi nella purezza del sentimento che permea il loro linguaggio. Se non vi piacciono, avete un buco nell'anima.
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