Verdena
Endkadenz Vol. 1 2015 - Rock, Alternativo

Endkadenz Vol. 1

Un grande disco rock o un semplice tuffo nel passato ma che in realtà ha in sé la forza naturale di sperimentazioni sonore estreme per un album di rock italiano.

Non stupisce che "Endkadenz" prenda il suo nome dal folle atto teatrale e musicale finale di alcune antiche sinfonie recitate dagli stessi musicisti che erano intenti a eseguirle. Il disco di cui stiamo parlando è una piccola opera epica rock, un lungo delirante canto sinfonico in fuzz perpetuo che scioglie chitarre estreme in atti armonici strazianti, giocando con il pop, con la ballata, con il valzer, un certo rock inglese e il Lucio Battisti che getta gli anni Settanta negli Ottanta.
A chi si chiede preventivamente dove vada collocato questo nuovo lavoro ("Ma è tipo Verdena prima di "Wow"? Come "Wow"? Ancora più matto di "Wow"?") possiamo rispondere dicendo che il passo che dal doppio incredibile lavoro del 2011 porta a questo "Endkadenz" è ancora un po' più lungo, ricco, e sprezzante nei confronti del pericolo discografico. Se dunque "Wow" aveva l'onere di condurci a piccoli passi, canzone per canzone, in una visione musicale che dal rock si allargava alla psichedelia, all'autorialità, in un mix potentissimo di fascinazioni tradizionali e sperimentali, "Endkadenz" porta tutto oltre e di brano in brano sembra voler superare la propria stessa scrittura, mescolare uno spettro di influenze ancora più vertiginoso da estrarre con le pinze da un magma infuocato di antica potenza rock che fa riemergere i Verdena più lontani che riusciamo a immaginare ma di certo non si ferma lì.

"Endkadenz" è un lavoro densissimo, i cui testi, in grado ancora una volta di sfidare qualsiasi tentativo di logica tradizionale della canzone italiana, aggiungono un nuovo tassello a una lingua a sé che la band bergamasca ha creato e messo a punto negli anni, dandole sempre maggiore importanza, di album in album. Non esiste brano, come già non esisteva in "Wow", che rinunci al proprio senso, che dietro frasi apparentemente così scollegate e senza filo a tenerle, non riesca a stabilire un fisico abbraccio con il suono, dando così origine a un discorso compiuto e felicemente a fuoco oltre ogni cut up possibile.
"E non sai di gelosia / nella mia mente sei comunque mia" ("Nevischio") sembrano versi di Lucio Battisti mentre la vocalità ricorda il Finardi fine anni Settanta in una struttura che avvicineremmo anche al migliore Morgan solista. Intanto Battisti (quello di "Anima Latina" ma pure quello di "Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera") ritorna in "Contro la ragione" che pure sembra richiamare un sound italiano Settanta alle porte degli Ottanta.
Ci sono chitarre su cambi repentini di direzioni in pezzi che ci ricordano i Queen che in una sola canzone ne sintetizzavano quattro (basta "Bohemian rapsody", per capire di cosa stiamo parlando) e tra le distorsioni - vera caratteristica essenziale di "Endkadenz" - possono spuntare con uguale probabilità, imprevedibili strati di elettronica o un valzer ("Diluvio"). Un pezzo come "Inno del perdersi" sintetizza poi, perfettamente, l'intero spirito sinfonico e senza continuità del disco, che sembra qua esplodere definitivamente mostrando una stratificazione sonora in crescendo con un finale dalle risonanze classiche.
Un disco che ai più potrà apparire un grande disco rock o un semplice tuffo nel passato ma che in realtà ha in sé la forza naturale di sperimentazioni sonore estreme per un album di rock italiano, sperimentazioni meno codificate e più nascoste di quelle di "Wow". Un lavoro da scoprire lentamente, con il migliore paio di cuffie che avete in casa e la profondità che va concessa a quella che, senza dubbio, è la miglior rock band italiana su piazza.

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