Il Teatro Degli Orrori
S/t 2015 - Rock

S/t

Il ritorno del Teatro è uno sconquasso emotivo di rumorosa bellezza.

Cuore nero. Cuore che s’apre, esplode, fa dei giri lunghissimi intorno al disincanto, al disprezzo, alla disillusione che è pane quotidiano, per poi tornare a ciò che è votato e scoprire che l’amore è uno schiaffo costante e doloroso e al tempo stesso, come impulso primigenio e fondante, motore di ogni cosa. Queste tre righe concentrano una visione che accomuna tutti i lavori del Teatro, stavolta spinta in ogni direzione possibile: la politica, la guerra e le battaglie, le generazioni nuove e la malattia mentale. Questo disco è densità e potenza, mette da parte il precedente “Il mondo nuovo” dove sembrava che si fossero un po’ persi, dove forse le motivazioni parevano allentate, per tornare all’energia granitica dei primi due album, a quell’epopea schiacciasassi, terrifica ed emotivamente squarciante che è il loro marchio. Certo, “Dell’impero delle tenebre” rimane l’apice compositivo della band, ma il presente non delude affatto: nessuna strizzata d’occhio, niente ballate o parentesi più morbide, se non nel finale, e anche i pezzi che approcciano lidi meno soffocanti, come “Una donna” o “Bellissima”, non mancano di ricordare la rabbia sulfurea e la tensione dirompente, per confermare che carrarmatorock is a state of mind.

La veemenza verbale di Capovilla, col suo recitativo cantato e urlato e indiavolato che stigmatizza e si fa antologia di letteratura e personale pensiero critico, che cerca poesia pure dove essa latita, si sposa al muro di suono di una formazione che vede due nuovi innesti, Kole Laca alle tastiere e Marcello Batelli alla chitarra, fondamentali per creare un mood che acquista spessore e tracciati elettronici che arricchiscono la materia sonora. L’accelerazione è immediata, i nervi subiscono una pressione che è milioni di quintali di noise che ti premono sul petto, e parole come pietre e come lame, sempre: lo spregio per una gioventù dagli ignobili ideali di “Disinteressati e indifferenti” con quel sardonico “Uno su mille ce la fa, stai a vedere che sei proprio tu”, “La paura” è un tritacarne sospinto da Favero e Valente che schiantano i limiti di velocità e spremono gli strumenti fino a cavarne un succo intenso che presto ci sommerge e ci inebria.

“Lavorare stanca” è un attacco duro al mondo del lavoro e alle sue regole che lentamente consumano, e un omaggio a “Chi lavora è perduto” di Tinto Brass, “Il lungo sonno (lettera aperta al Partito Democratico)” ha un titolo che parla da sé, racconta una deriva e lo fa sfruttando al meglio le incursioni sintetiche di Laca, diventando un pezzo che sfiora il dancefloor e che continua a ronzarti in testa con facilità. La deriva, dicevamo, che è un concetto preponderante in cui si inciampa spesso in questo disco, quella dell’individuo, di una categoria, di un intero Paese, vista attraverso la maniera in cui si guarda alle cose, sempre con la necessaria distanza per non esserne toccati: i conflitti e i rifugiati in “Una donna”, psicosi e disturbi mentali in “Benzodiazepina” e ancor più in “Slint”, con la sua intro e gli intermezzi che sono pura epicità goth-metal, quasi risuonassero in una cattedrale abbandonata per poi sedersi in solitudine tra i cormorani, in estrema solitudine in una stanza da TSO che è fatta di sussurri e un pianoforte scuro, fino alla morbosa deflagrazione di ogni sentimento. “Genova” è una coraggiosa denuncia dei fatti del G8, “Sentimenti inconfessabili” prende a calci la mediocrità e la disonestà intellettuale, arrivando a “Una giornata al sole” che chiude come unica, piccola speranza, come per dire che poco basta per stare non bene, ma meglio: “Sono felice, non lo so però almeno ci provo, è da una vita che ci provo”.

Il Teatro degli Orrori è tornato, col suo cuore nero, pulsante e vivo di sangue, lo sconquasso emotivo e i nervi tirati a lucido sono serviti: ecco qua la rumorosa, violenta poesia.

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