Hide Vincent
Hide Vincent 2017 - Cantautoriale, Folk

Hide Vincent
10/06/2017 - 09:00 Scritto da Antonio Belmonte

Parte dalle pendici boschive dell’Irpinia l’ennesimo ponte musicale tra folkerie acustiche del vecchio e nuovo continente. E chi l’avrebbe mai detto?

L’omonimo debutto di Hide Vincent persegue, a suo modo, la celebrazione dell’essenzialità, lirica e musicale al contempo. Certo, per quanto per il navigato mondo del folk ciò non rappresenti affatto nulla di pioneristico – tutt’altro – il songwriter campano dimostra ciononostante di sapere il fatto suo quanto a razionalizzazione degli spazi acustici in funzione narrativa, alla luce, peraltro, di una ormai consolidata malinconia campestre che marchia a fuoco tutto il suo lavoro, fin dalla grafica della copertina, con quell’albero stilizzato che sembra costituire una naturale ramificazione della propria testa.

Mario Perna – per i funzionari dell’ufficio anagrafe di Ariano Irpino – si sceglie Damien Rice, Nick Drake, Mark Kozelek e Bon Iver come rassicuranti punti di riferimento per la sonorizzazione della sua immaginifica solitudine, assecondando le movenze di un intimismo scalpitante (“Father” su tutte) che si divide tra l’omaggio appassionato ai succitati maestri di vita (la cover di “Delicate” di Damien Rice rimane in tal senso un’affettuosa dichiarazione d’intenti) e il tentativo di tracciamento di un percorso stilistico personale che, giocoforza, fatica non poco a smarcarsi da cotanti “padrini”.

Derivativismo a parte rimane la qualità compositiva ed esecutiva di dieci canzoni dall’elevato coefficiente evocativo, umbratili ma garbate, che si muovono tra Irlanda e America rurale in quel loro continuo e delicato divenire melodico. Grazie anche al carezzevole violoncello di Sharon Viola, mai sopra le righe nel supportare chitarra e voce, “Hide Vincent” soffia dimessa bellezza da ogni accordo, alternando sapientemente momenti acustici struggenti (“Black poetry”, “Yellow Lights and Blue Seas”) a misurate decongestioni pop (“Things I did today”) e ad atmosfere armonicamente più costruite (i Decemberists di Colin Meloy liofilizzati nelle trame romanzate di “Blood Houses”).

A questo giro parte dunque dalle pendici boschive dell’Irpinia l’ennesimo ponte musicale tra folkerie acustiche del vecchio e nuovo continente. E chi l’avrebbe mai detto?

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