Bombay
Ritratto di Bombay 2017 - Cantautoriale, Indie, Acustico

Ritratto di Bombay

Cantautorato anni ’70 e storie che rincorrono le minuscole tragedie del quotidiano. Un album nostalgico a cui ci si dovrebbe affezionare, ma che per ora lascia l’amaro in bocca.

“Non c’è bisogno di fare il fenomeno per impressionarmi”, suggerisce in “Che disastro” Bombay, cantautore from Torpigna con furore, mantenendo fede a una poetica di dischi autoprodotti, arpeggi di chitarra da un’Italia anni ’70 e storie che rincorrono le minuscole tragedie del quotidiano, tra una guerra alla sinusite e attese interminabili scandite dalle pale di un ventilatore.

Con “Ritratto di Bombay”, seguito di un omonimo esordio e del “Numero 2”, Gabriele Di Majo ci ricorda l’esistenza di un cantautorato che non ambisce al sold out nei palazzetti, ma a cui la dimensione di una cameretta sta comunque molto stretta. Come un Calcutta intrappolato ad oltranza in un in-store chitarra e voce nei bangla, Bombay prova a lanciarci un bel messaggio, romantico, forse a tratti naïf, e decisamente nostalgico: va benissimo se non avete un social media manager o un’etichetta che vi pubblica i dischi; prendete una chitarra e mettetevi a suonare.

Con la leggerezza in questione e una certa urgenza, le canzoni di Bombay lasciano intravedere ritratti personali a cui ci si potrebbe affezionare con un sorriso malinconico, ma che, per la maggior parte dei casi, lasciano un senso di amaro in bocca, dovuto alla consapevolezza di un potenziale non espresso a dovere in questo terzo disco. Il potenziale in questione lo si capisce da un brano come “Senti amore”: uno inno struggente che, per usare le stesse parole dell’autore, “ha il sapore dell’inverno” e un fingerpicking che scalda il cuore, quasi quanto il finale di “Sigourney Weaver”, spin off di una serie tv che ha per colonna sonora l’Album della Pecora di De Gregori.

Sono ancora troppi i punti, però, in cui è un certo senso di pigrizia, sia a livello musicale che testuale, a prevalere. Su tutte, basta citare l’esempio di “Falco Pellegrino”: quattro minuti interminabili, vuoi per l’assenza di dinamica nel pezzo, vuoi per versi come “in mezzo al lago/mi sono addormentato/e quando mi sono svegliato/un falco volava in cielo:/falco pellegrino/ritorna ancora bambino”.

Va benissimo allora la spontaneità, la sacrosanta libertà di voler registrare un disco con lo stretto indispensabile e la gioia di poter cantare le canzoni esattamente così come sono nate, ma la sensazione è che Bombay ha bisogno di prendersi più tempo, essere più ambizioso e non accontentarsi necessariamente della soluzione più facile, ma non per questo più intrigante. Dicono che Roma non fu costruita in un giorno, ergo anche Torpignattara può prendersi il tempo che gli serve, che tanto davvero non c’è fretta.

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