Alessandro Russo
Escher on the Beach 2018 - Strumentale, Pop, Classica

Escher on the Beach

12 immaginifiche didascalie sonore su tasti d’avorio che si cibano della sensibilità cinematografica di Nyman, Glass e Frahm.

Ritroviamo Alessandro Russo più o meno laddove lo avevamo lasciato cinque anni fa: cioè a far tesoro degli insegnamenti dei venerabili maestri dell’intimismo immaginifico su tasti d’avorio per nobilitare al meglio le sue composizioni su pianoforte, fortificando una ormai collaudata alchimia sonora di memoria storica e modernità.
“Escher On the Beach” è il secondo disco del pianista bolognese e, in un certo senso, ne sancisce ufficialmente l’affiliazione a quella scena minimalista e visionaria, dalle marcate connotazioni cinematografiche, che in Philip Glass e Michael Nyman – e corrispettivi discepoli – può vantare i suoi più illustri portabandiera. Restiamo dunque all’interno di un territorio trasognante a noi familiare (e peraltro già efficacemente perlustrato da Russo nel debutto "Assediati dall'esercito russo e cinti dalle mura, guardavamo il cielo") fatto di ancestrali malinconie, evocativi paesaggi fuori dal tempo e personaggi immaginari annichiliti dalla catastrofica bellezza della vita.

Sul piatto 12 composizioni interamente strumentali per altrettante cinematiche didascalie sonore che ostentano candidamente i modelli di riferimento: le nymaniane “Escher On the Beach” e “Dei giorni quieti” ci rimandano visivamente alla mitica scena sulla spiaggia di “Lezioni di piano” di Jane Campion, gli ammiccamenti a Erik Satie di “Un ricordo presente” e “Dei ricordi futuri” ci regalano impagabili minuti di corroborante pace dei sensi, “Sleeping at 5 am” rievoca alcuni slow motion di Ludovico Einaudi, le auree elettroniche mutuate dalla scena nordica di Nils Frahm, Martin Kohlstedt e Max Richter raggiungono in “In Deep Water” il loro climax atmosferico mentre quell'uno/due “Bologna ‘900”/“Fading Girl” trasuda Glass (peraltro evocato di rinterzo nello stesso titolo dell’album) da ogni increspatura melodica.
Non sono da meno anche le perturbazioni umorali di “In Search of Es” e “Psychopeace” e il minimalismo contemplativo di “Seconda fase”, a ulteriore testimonianza di un neoclassicismo 3.0 che nel suo porsi come orgogliosa negazione del virtuosismo si preoccupa soltanto di dispensare struggente bellezza a prezzi di saldo.

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