Donatella Rettore
Figurine 2005 - Rock, Pop

Figurine

Se esiste una recensione problematica, è questa. E il primo problema è: perché recensire il nuovo album di Rettore su Rockit? Mah, per i ricordi, direi senz'altro. Per quello che quest'artista eccentrica e borderline ha rappresentato nella musica italiana tra la fine dei 70 e l'inizio degli 80. Per il suo essere ai margini (fino a un certo momento) dello star system mainstream, per la sua capacità di introdurre temi, musiche e mode mai osate fin'allora nella musica da prima serata (l'invito gioioso al suicidio di "Lamette", lo ska – forse il primo in Italia – di "Donatella"). Per il culto che la circonda ancora oggi in ambiente indie, come testimoniano l'album "Clonazioni - Tutti pazzi per Rettore" del 2001 e gli omaggi di Carmen Consoli, Statuto, Prozac+, Soerba e Bluvertigo.

D'altro canto Rettore è anche stata parte integrante (da un certo momento in poi) dello star system più bieco e becero, e complice fino in fondo dell'orrenda italietta dei reality show, come visto – da chi ne ha avuto fegato o stomaco - in "La Fattoria".

Per di più, il disco svela nei credits come colonne portanti quell'esperto pirata di Paolo Steffan, musicista eccelso, uno dei "minori" che hanno fatto la storia del rock italiano con mille collaborazioni importanti e che ora bazzica "Ritmi globali", e William Bottin, talento elettronico uscito dalla Fabbrica di Oliviero Toscani, uno che con house e chill out ci gioca come vuole e ne ha fatto due dischi divertenti.

E allora, che disco è questo "Figurine"? Un disco da Rettore che insegue un ruolo da "Brivido divino", impossibile ora, se non altro per la mutata situazione sociale, o un disco da Rettore della Fattoria? Un disco alla Bluvertigo o alla reality?

Né l'uno né l'altro: la risposta sta nel mezzo. In certi tratti c'è una resa al baraccone delle nostalgie da Canale 5 e via costanzando (la terribile cover della terribile "Quanto t'amo" ne è il simbolo); altrove ci sono spunti di un'ispirazione che non vuol morire, ma certo non è più forte e vigorosa come una volta. E allora c'è la sincerità di "Tutta la verità", canzone trascurabile e prescindibile in sé, in quanto a musica, che però ammette età ed anni di Donatella (e non è poco, per quel baraccone mediatico lontanissimo dalla realtà) e in più li annega in una quotidianità da casalinga. E su questo – punto nodale del lavoro - il giudizio rimane sospeso: non si sa se la chiave buona per spiegare la sensazione che prende è quel certo effetto sceneggiato tv – perché qui si parla di una che non è e non può essere normale (perché una star, anche se ex, non fa una vita normale) ed esibisce un desiderio insincero di essere "come tutti gli altri" – o crederci a quel desiderio, perché Rettore è tanto che è uscita dal giro che conta, e solo comparsate, ospitate nella tv della nostalgia, tentativi di rientrare dalla finestra dei reality l'hanno fatta riaffacciare dal piccolo schermo, in un'illusione di nuova notorietà, e quindi potrebbe essere davvero sincera e solamente non essere riuscita a trasmetterla, questa sincerità. In ogni caso qui c'è un'umanità che lotta per venire fuori.

C'è un altro aspetto di questo disco, che parla della sincerità: la musica. Che va dal più becero mainstream-nostalgia della già citata "Quanto t'amo" o della ex-sanremese "Di notte specialmente" alle riprese delle epocali "Kobra", con tanto di chitarra alla Radius, e "Splendido splendente", remigata, a cui Bottin regala dei bassi alla Basement Jaxx che dio bono come pompano.In mezzo, tutti i colori del pop rock, da quello più mainstream e leccato a quello più vintage e anni 70, in cui si sente la mano di Steffan, con quel non so che tra rock usa e west coast. Qual è il problema qui, parlando di sincerità? Che il disco è disseminato di citazioni di significato diverso. Ci sono le strizzatine d'occhio in fase di arrangiamento, come l'arpeggio tra U2 e Coldplay di "Stralunata", o il giro di piano in cui termina il ritornello di "Ricordami", esemplato sulle cose che Fariselli faceva con Finardi nei 70. Ci sono le citazioni in fase compositiva, che vanno bene perché ammiccano un attimo e subito il pezzo prende una piega diversa dall'originale. E qui Donatella si arrabbierà a morte con me, e temo venga a cercarmi a casa per graffiarmi e prendermi a calci, ma all'inizio della strofa di "Stralunata" canta come la sua nemica Bertè in "Fotografando" di Ivano Fossati: non solo il timbro e la voce roca imitano la calabrese, ma anche la melodia è identica. E lo stesso gioco si ripete in "Leonessa": inizio di tastiere e basso che per due note evocano il Donald Fagen di "New frontier", poi i due accordi che chiudono il giro che sono presi di peso da "Il mare d'inverno". Ma almeno poi ci costruisce sopra una melodia diversa, simile a quelle d'un tempo. Non mi vanno altrettanto bene i momenti in cui le somiglianze si fanno troppo forti, come nel ritornello di "Konkiglia", primo singolo, che mi ricorda davvero troppo "Down under" dei Men at work.

Il paradosso, nella selva delle citazioni che non si sa come trattare, è che la sincerità sembra essere più forte laddove c'è un'impronta musicale meno originale. In fondo, niente di strano: perché chi è capace di scrivere brani propri interpreta delle cover, da che mondo è mondo? Perché tramite loro riesce raccontare qualcosa di sé meglio di quanto sappia fare lui stesso. Non sto facendo l'elogio di chi scrive canzoni che assomigliano troppo ad altre. Sto solo dicendo che come tanti altri questo è un disco che musicalmente s'illumina sugli spunti citazionisti, e nei testi ha sprazzi di vita vera che si liberano di quella "vaghezza indeterminata in cui tutti possano riconoscersi", tara ereditaria e costitutiva anch'essa del mainstream pop (una di quelle cose che impedisce di amarlo veramente e permette solo di frequentarlo per qualche fugace sveltina), e in cui riemerge la Rettore che abbiamo amato, quella che aveva il coraggio di esibirsi in prima persona come protagonista dei suoi testi: la donna che non si vergogna della sua sessualità, che rivendica lo stesso trattamento dei colleghi maschi nella sua differenza, nel concreto, non in discorsi-seghe mentali da compagna impegnata. Quando cantava "Kobra" rispondeva allo slogan femminista separatista "col dito col dito / orgasmo garantito", rivendicando l'appropriazione e l'uso da parte femminile dell'oggetto pene, dando forma letteraria e contenuto sociopolitico post-femminista all'ironico controslogan "col cazzo col cazzo / è tutto un altro andazzo". Ora quando in "Konkiglia" Rettore canta "mi dispiaci ma mi piaci / voglio solo amici froci / un esercito di audaci non ci tradiremo mai" s'illumina – seppure debolmente - di quella stessa luce, perché di questi tristi tempi un'affermazione simile finisce per avere un peso che non è solo esistenziale ma anche politico (senza aver nulla a che fare con partiti o ideologie, of course). Lo stesso quando canta "In un mondo di uguali / voglio essere sola" (sempre in "Konkiglia"), distanziandosi dal presente tritassassi e annulladifferenze. Nonostante i reality e le tentazioni costanziane di questo disco, è qui che abita l'umanità che lotta per venire fuori di cui dicevo prima. Consapevole, ed è qui che sta il dramma di questo disco, di essere "annullata dentro un mondo senza vita / che non so dov'è finita", di avere "inseguito molte rotte (…) / cambiato troppe strade / troppi amori poca fede troppa vita", di essere "sempre sola e più stanca" ("Stralunata"). C'è la ribellione a un mondo che Rettore stessa ha però contribuito a crearsi intorno, e a cui si aggrappa per tornare sulla cresta dell'onda – come dicevano troppi anni fa. Con il tempo che passa ("presto è tardi / troppo tardi / maledettamente ormai / con il tempo / non hai scampo", in "Presto ch'è tardi"), ci si aggrappa anche a realtà che non si riconoscono come proprie ("in quel circo sono stata la migliore" è un criptico riferimento all'orrendo reality?), si adottano mezzucci come quello del matrimonio con Claudio Rego (coautore, compagno e convivente da sempre) per conquistare comparsate a orrori come "La vita in diretta" e "Verissimo". Fa ridere? Mica tanto, da parte di una che a inizio 80 girava abitualmente con gente come Visage ed Elton John. L'umanità che ruggisce indomita seppur ferita sta qui, nel non volersi arrendere, ma essendo costretta a farlo, a un mondo falso: "non c'è / più vigore più rigore non c'è / chi raccoglie figurine non c'è / siamo alla fine / alla fine di che?".

La fine di tutto questo discorso è questa, e avrebbe potuto anche costituire da sola tutta la recensione, ma non avrebbe avuto lo stesso senso, senza premessa e ragionamento: questo non è un bel disco. Non mi piace. Ha un buon lavoro di arrangiamento, ma casca troppo spesso in un mainstream sanremese o in rock leccato che non mi appartengono, come se Steffan e Bottin siano stati tenuti a freno (Bottin meno, essendosi potuto liberare nel buon remix di "Splendido Splendente"). Ma rispetto a tanti altri prodotti mainstream, questo disco racconta di una lotta interiore reale, tanto più reale quanto più soffocata ed emergente ad eruzioni, corrugamenti tellurici, scoppi improvvisi. In questo senso si inquadra il citazionismo di cui è intessuto l'album. E per questo, pur non piacendomi questo disco, quest'artista merita ancora il mio rispetto. E credo anche il vostro.

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