Numero6
Dovessi Mai Svegliarmi 2006 - Pop, Indie

Dovessi Mai Svegliarmi

È raro trovare un disco che abbia una così forte coscienza di sé da contenere la propria sintesi. Provate ad ascoltare il brano di chiusura, “Da piccolissimi pezzi” e lì troverete l’idea, l’impostazione e la struttura di questo secondo disco a nome Numero6: “Io non faccio poesia verticalizzo e bado al sodo mi alzo troppo tardi e da piccolissimi pezzi nasce il quadro”.

Questo è esattamente ciò che si trova nelle dodici canzoni dell’album, che partono da piccoli fatti o da semplici particolari per poi allargarsi ad osservazioni più generali e più profonde. Accade con “Mi Succede”: inizia con la curiosità di sbirciare negli appartamenti altrui, per cogliere brandelli di vite che non si stanno vivendo; si chiude, passando dalla parte al tutto, con la consapevolezza di non poter vedere che una minima parte di ciò che esiste. Oppure con “È arrivato il freddo”, in cui lo stimolo iniziale, una fotografia scattata a Madrid, viene allargato e reso più complesso: l’istantanea viene sostituita da un’inquadratura “colma di errori impensabili”, che solo una “colonna sonora valida” riesce a salvare.

L’indicazione del luogo risponde al badare al sodo di cui sopra e si ritrova in molti pezzi, come indicazione geografica precisa o come semplice chiusura dell’azione in uno spazio ristretto, ad esempio il locale hype che rende ”isterici” in “Verso casa” (ancora un altro luogo). Nuovamente, è il brano finale a unire queste due tendenze, con l’opposizione tra i vicoli di Nizza ”gonfi di sguardi” e l’abitacolo dell’auto dei protagonisti colmo di parole.

Concretezza, dunque, che si somma all’aperta dichiarazione di non fare poesia. La prosa, infatti, domina i testi, vere e proprie micro-narrazioni: niente rime, né metrica, che, anzi, viene piegata e sottomessa allo scorrere del senso della storia (sul libretto, coerentemente, non vi è nessun a capo). Va detto, inoltre, che i testi sono talmente curati ed efficaci da reggere anche in fase di semplice lettura, fatto più unico che raro anche ad altissimi livelli compositivi. Del tutto naturale, quindi, il passaggio ai cinque racconti effettivi, inseriti nel booklet e firmati da Dezio, Mancassola, Missiroli, Morozzi, Nori e Bellocchio, che presentano una forte continuità rispetto allo statuto narrativo delle dodici piccole storie cantate.

Poi c’è la musica. Bilanciata alla perfezione con i testi, mai sopra le righe. Rispetto al disco precedente, le chitarre si placano e si avverte una sterzata verso un pop più raccolto, che solo a tratti si accende con echi anni ottanta. A livello di riferimenti, restando in Italia, si può parlare di Ivan Graziani (soprattutto in “Al centro della storia”) e di Max Gazzè. Il nome di quest’ultimo, però, compare principalmente per la tecnica di scrittura dei testi, costellata di vocaboli e passaggi ben poco easy-listening (“Conservi un numero ormai notevole di agende che l’inchiostro ha martoriato con rigore e metodo un vezzo come tanti”). Tuttavia, rispetto all’artista romano, Michele Bitossi, (deus ex machina del progetto), spinge meno sul filone surreale, concentrandosi maggiormente su situazioni intimiste.

E fatalmente il discorso è tornato sui testi. Chiedo venia per il pessimo bilanciamento di questa recensione, ma le parole di questi brani meritano decisi approfondimenti, perché sono le principali artefici di un disco che è un piccolo gioiello, luminoso e unico. Come una copertina innevata in piena estate.

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