Wild Threads è un disco che, ve lo dico sinceramente, mi ha fatto provare due sensazioni in netta contrapposizione: amore e "vergogna". Amore per le liriche e la produzione di Gopnik Bog il misterioso artista laziale "dietro" a questo lavoro. Ma dicevamo anche la vergogna, giusto? Beh, questo sentimento è spuntato, in modo del tutto inatteso, quando mi sono messo a pensare che, un album del genere, se fosse uscito, tanto per dire, nel 2011 non solo sarebbe stato accolto con le fanfare dal pubblico e dalla stampa specializzata, ma non sarebbe suonato così diverso come i migliori dischi di dieci anni fa.
Ecco che partendo da quest'assioma mi sono deciso a promuovere pezzi come FLOW perché, oggettivamente, sono squisite gemme di synth-pop eppure non senza e senza e senza ma: infatti a più riprese, troppe riprese mi sono accorto di un numero veramente esagerato di rimandi a questo o quella band di qualche anno fa.
Al netto di questo la produzione è davvero molto buona e anche prendendo in considerazione solo i singoli pezzi, come Miracoloso Uragano la bontà del lavoro del cantautore laziale rimane intatto: "Un album che cerca di assottigliare il confine tra l'indie italiano e il rock giapponese, trattando in maniera astratta temi legati alla natura umana e al motivo per cui siamo quì. Le chitarre, distorte e talvolta poco accordate non tolgono spazio al pianoforte e ai violini che addolciscono il complesso energico di suoni aspri".
Insomma, potremo fare i criticoni quanto si vuole ma quando un cantautore descrive così una sua "creatura" come fare a non volergli un po' (tanto) di bene?
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