The Zen Circus
Villa Inferno (feat. Brian Ritchie) 2008 - Rock

Villa Inferno (feat. Brian Ritchie)

Qualche tempo fa, sopraggiunte per me nuove mansioni lavorative e altrettanto mirabolanti nuove frontiere, decisi che la mia missione socioculturale doveva necessariamente prescindere dallo strumento "recensione musicale". Strumento vecchio e gommoso. E che dunque, considerate la I-epoca di ascolto frammentato in cui viviamo e la morte del disco inteso come tale, non avrei mai più scritto alcunchè di "critico" (semmai di partecipativo) su album o affini.

Poi ho ascoltato l'ultimo degli Zen Circus + Brian Ritchie.

E ho deciso di fare un'eccezione.

Ma non nel senso di recensione, quelle le scrivono i giornalisti musicali (e io non lo sono). Ma nel senso di album. E di gruppo. E di MusicaIitaliana. Partiamo dal concetto di gruppo. Gli Zen Circus, fino a poco tempo fa conosciuti prima come talentuosi e promettenti folk punk rockers, poi come irrisolti rockers, e ancora come sventrapapere pisani e tombeur des femmes nonchè buskers d'altri tempi e altri luoghi, casinari e riottosi ma bravi quando lo volevano, be', ora gli Zen Circus l'hanno fatta grossa. Grossa, sisi. Grossa e bella. Senza che nessuno se lo aspettasse, e con lo stupore di molti (i soliti stupidi invidiosi e ingrati) che ancora stentano a crederci, hanno prima conquistato Brian Ritchie (il sempiterno bassista degli indimenticabili Violent Femmes), il quale si è innamorato di questo progetto folle, visionario e romantico, non solo proponendosi come produttore del disco, ma addirittura entrando in line up come quarto membro aggiunto. Clamoroso. Se abitassimo in una Nazione nella quale la Musica fosse una cosa importante, i giornali titolerebbero a colonne. Insieme, hanno coinvolto una serie di ospiti che rappresentano la Storia del rock (alternative, indie, e no) internazionale, facendone il lustro di un disco meraviglioso, traboccante d'immaginario, frutto di un percorso non solo artistico ma anche di vita, lavorato con cura. Quella delle cose importanti.

Dicevamo poi: album. Partiamo? Piccola accordatura alla chitarra, un paio di bestemmie, un sorso di birra. Si va. Il singolo scelto per lanciare l'album è "Punk Lullaby", ai cui cori hanno contribuito le gemelle Kim Deal (bassista dei Pixies, chitarrista nelle Breeders) e Kelley Deal (basso nelle Breeders). L'assaggio per coloro che ancora non sanno è come "con tutte le ragazze": tremendo. Mood pixiesiano, incedere accattivante, piglio come fosse un uncino. Per chi - come me - aveva amato "Sailing Song" di "Doctor Seduction" (Le Parc Music, 2004), qui c'è la quadratura del cerchio. La completezza. La scrittura, innanzitutto. La capacità cioè di mediare fra la Morte, il rock, e la Vita. Ovvero tutto quello che gli Zen Circus buttano dentro questo disco. Aprendo, non a caso, una "Villa Inferno", il posto dove il cadavere del rock balla molto meglio dello spettro della società. Disegnando un mondo in cui la gloria è vana e a vent'anni si è dei grandissimi stronzi, terre città e posti da loro percorsi in acustico, buskers con il cappellino per i soldi, un mondo dove "ho i piedi sporchi / e nessuna parte dove andare", dove "devi suonare la batteria, ragazzo / devi suonarla più forte". Ma è la sensazione di armonia la cosa più travolgente all'ascolto. Il sentirsi racchiusi in un immaginario che regala una visione del mondo. La stessa "Wild Wild Life" dei Talking Heads coverizzata in questo disco. E sapete la cosa bella? Che è proprio Jerry Harrison, ovvero colui che quelle tastiere le suonò già nella versione originale, l'altra collaborazione di livello di "Villa Inferno".

Ma fra un ospite e l'altro é la pacca dei pisani a lasciare senza fiato. Dopo anni di tentativi e panni lavati a mano nelle fontane delle città, l'ispirazione e l'espressione vengono mediate in quello che è senza ombra di dubbio il capolavoro della band. Senza magari neanche volerlo, fanno un regalo alla Musica Italiana, che con il rock – si sa – non ha mai avuto questo gran feeling. Metabolizzano il background e lo rendono proprio - tanto da convincere proprio gli eroi di quel background a entrare in questo presente senza altri motivi oltre alla Musica. Perchè la verità è che Appino, Ufo e Karim hanno superato tutti i loro limiti. Si sono messi in discussione. E hanno vinto. E lo possiamo sentire tutti, senza patemi d'animo sulla lingua, proprio nei tre pezzi in italiano inseriti nel disco (cantato anche in inglese e francese): "Vana Gloria", "Vent'anni" e "Figlio di Puttana" (brano già di diritto negli inni del rock, vero anthem tutto da cantare ai concerti), dove la carica umana sgorga tumultuosa. Nient'altro che canzoni. Bellissime. Una collezione di perle nelle quali la voce, molto più dinamica che in passato, vibra creando un densissimo contatto con l'ascoltatore. E dove, come mai prima, gli Zen dimostrano d'essere italiani. Italiani come le macerie, dalle quali ancora una volta il rock'n'roll ha creato la magia e il miracolo. E se è vero che l'eccezione conferma la regola, benvenuti a "Villa Inferno". La più meravigliosa delle eccezioni italiane anno 2008.

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