72-Hour Post Fight
Non-background Music 2022 - Hip-Hop, Emo, Nu jazz

Non-background Music

Il secondo album della band lombarda vive nella tensione costante tra generi diversissimi, sublimandoli in un album di meravigliosa agitazione

Un titolo semplicissimo, che sembra condito da una leggera punta polemica, ma in realtà è più probabile si tratti semplicemente di un meme: Non-Background Music, come a ribaltare i sottotitoli per non udenti nei film quando parte una musichetta non meglio identificabile. E in effetti sarebbe una bella sfida tenere come sottofondo i 72 Hour Post Fight, band formata dai già noti producer Fight Pausa e Palazzi D'Oriente assieme al sassofonista Adalberto Valsecchi e al batterista Andrea Dissimile. Una sorta di supergruppo, che già aveva sorpreso con l'eponimo disco d'esordio e che ora, 3 anni dopo, ritorna con un corposo album di 12 tracce.

Sin dalle prime note di Candleface Theme, traccia d'apertura del disco, si riesce a percepire la veridicità del titolo. Su un disturbante loop noise prende forma un corpo sinuoso e grottesco al tempo stesso, ammorbidito dalle note sempre più ingombranti di un sax notturno. C'è un'inquietudine costante che si manifesta anche in episodi più tranquilli, come 4k Fireplace, un'ideale colonna sonora distopica per il caminetto virtuale di Netflix che sembra una sorta di J Dilla filtrato dall'occhio perverso di J.G. Ballard.

È un ecosistema sonoro ricco e disturbante quello dei 72-Hour Post Fight, un coacervo di generi e influenze da veri nerd invasati con la musica che sgorgano naturalmente, si manifestano con naturalezza nello spettrale affresco generale. Così echi di Lounge Lizards, deviazioni elettroacustiche, loop hip hop, ma anche una certa visceralità emo nella costruzione dei brani finiscono per incrociarsi con un senso logico, con una texture spigolosa e crepuscolare ancora inedita, che ormai è sempre più definita sotto l'insegna 72-Hour Post Fight.

Che siano le strette spire del già pubblicato singolo Bug, le sognanti ascensioni di Trust con la voce della cantante Mal Devisa – una delle poche collaborazioni dell'album, assieme a Billy Fuller dei Beak e Kamohelo degli afro-scandinavi Off the Meds – o la ruvidezza della conclusiva Again!, c'è un tassello di tensione che è sempre presente e visibile, sia che si rimpicciolisca fino a una scheggia minuscola, sia che sovrasti tutto quanto. Un connubio animato dalla spinta dei Sons of Kemet così come dal buio vitale dei Morphine, le allucinazioni di William Burroughs e un'energia latente di cui si sente il calore acido, senza scoppiare mai davvero ma lasciandoci lì, nervosi, agitati, consci che tutto potrebbe crollare in un processo irreversibile. E se riuscite a tenere tutto ciò in sottofondo, non c'è musica che possa colpirvi.

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