Achille Lauro e la differenza tra l’arte e il juke box

Il nuovo singolo "1990" prosegue il suo viaggio nel tempo in chiave freak. Suona bene e rievoca dolci ricordi, ma per portare nel futuro la trap ci vuole molto di più

La copertina di "1990", nuovo singolo di Achille Lauro
La copertina di "1990", nuovo singolo di Achille Lauro

Achille Lauro mi turba da sempre, e mi sono fatto l’idea che fosse esattamente quello il suo obiettivo. Non ci vuole propriamente un comportamentista, infatti, per afferrare che tutta la sua arte e la sua estetica sono basate su forme di provocazione, a volte manifeste altre un poco meno, con l'obiettivo di scatenare nel pubblico una serie di reazioni che vanno dalla fascinazione alla repulsione e l’indignazione. Nell’ultimo anno l’approccio ha fornito risultati parecchio confortanti.

Ora, a meno di un anno dall’epifania di Sanremo e al culmine di una stagione di autentica deflagrazione per l’ex trapper delle borgate, arriva “1990”, nuovo singolo che anticipa l'omonimo album. Inquadrato, dopo le penose polemiche del Premio Tenco, con un discorso programmatico parecchio grillino. “Sto fondendo tutto in un unico insieme. Non esiste più nulla per me, i generi musicali sono solo gabbiette per topi. Pop, punk, rock, grunge, musica contemporanea. Sono un’unica cosa”.

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“1990” – da un’idea non venuta per un soffio a Stefano Accorsi – non è un brutto pezzo, affatto. La produzione progressiva di Boss Doms e Gow Tribe fila dritta, il ritornello con il sample di “Be my lover” dei La Bouche si pianta subito nel cervello – grazie al cazzo, direte voi, e vi si può contestare al più il vocabolario – e il testo è la consueta ben riuscita giustapposizione di immagini evanescenti e massime di vita che suonano bene fino a quando si ha la pretesa di approfondirne il significato. 

La musica di Achille Lauro procede per evocazioni, che danno vita a un mood malinconico che avvolge l’ascoltatore. Su Rolling Stone Michele Bisceglia ha trovato l’immagine giusta: “1990” è una giostra di paese in un giorno di pioggia. Inquieta e affascina. A contribuire alla resa agrodolce è la figura allampanata (e allucinata) di Lauro, che pare conoscere davvero bene il prodotto “se stesso” e i meccanismi della comunicazione. Lo dimostrano, una volta di più, la copertina del singolo, con il cantante che reinterpreta una delle più celebri immagini di Britney Spears (e del fotografo David LaChapelle), e la campagna di lancio dello stesso, in cui Achille Lauro ha “affittato” le pagine di un cult della fine dello scorso millennio: Cioè.

 
 
 
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Figata dunque, no?! Non del tutto, almeno per chi può permettersi il lusso di rompere i coglioni. Perché per il percorso artistico del giovane uomo che ha dato del tonno a Valerio Staffelli, “1990” rappresenta un passo indietro. E mostra quanto le aspettative che alcuni di noi avevano riversato su Achille Lauro fosse un po’ troppo generose.

“1969”, il precedente disco del cantante romano, uscito solo pochi mesi fa, pareva un punto di svolta per la trap, genere che a casa nostra, al di là dell’hype, soffre di una cronica carestia di creatività, finendo per diventare un loop di stilemi che funzionano. Detti più o meno bene, da tipi più o meno fighi. In attesa della grande risacca.

Con la sua “Rolls Royce”, Achille Lauro aveva fatto sobbalzare tanti culi sulla sedia. Quelli più conservatori per la scandalosa dissacrazione del palco di Sanremo, quelli più pretenziosi per la novità incarnata da quel sound e da quell'approccio. Finalmente qualcuno provava a immaginare un futuro per l’autotune, ibridando trap e altri linguaggi, in questo caso un rock & roll iconico e retrò. Ok, il flirt con gli stereotipi era sempre più manifesto, ma comunque meglio di un ragazzino di Potenza (o Vipiteno) che dice solo “Skrrt”. 

D’altra parte è questa la lezione che arriva da oltre oceano, dove Post Malone ha dimostrato con il suo ultimo album che oggi l’ex musica delle case del crack di Atlanta è un foglio bianco su cui si può disegnare ciò che si vuole, dalle ballate pop a Ozzy Osbourne. Ancora più in là si è spinto un ragazzino, Lil Nas X, che fondendo le superfici di trap e country ha polverizzato ogni record di streaming. 

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La nostra risposta – mentre alcuni suoi colleghi si trasformano in Biagio Antonacci e altri si mettono al riparo dall'imminente fine dell'onda riciclandosi in fenomeni da baraccone tv – era Achille Lauro, che approfondiva il discorso con due singoli come “C’est la vie” e “1969”, altrettanto ben confezionati, amari e coerenti. 

Dopo aver conquistato le passerelle di mezza Italia, il pubblico di Mara Venier e quello più amichevole di X Factor e trovato conferme persino nella dimensione live, Lauro avrebbe potuto e dovuto rilanciare. Invece, nel momento di massima visibilità, si è giocato la carta “1990”. 

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Ebbene, si poteva ambire a qualcosa di più. Usando un’espressione quasi imbarazzante, si poteva sperare che quello iniziato a bordo di una scintillante brum brum Sixties fosse un "percorso artistico". Perché che Achille Lauro abbia affinato un idioma efficace e sappia veicolare atmosfere lo si dà ormai per assodato, così come non ci sono più dubbi sulla sua capacità di fare musica che odora di 2019, ma serve a qualcosa se diventa una specie di juke box con i disegni in faccia? Se l'obiettivo è al più attivare qualche recettore musicale disperso da qualche parte nell'ippocampo?

La nostalgia è uno dei doping più potenti che ci sia, e allo stesso tempo una gabbia da cui non è facile evadere. Non sono affatto convinto che la strada giusta per Lauro sia quella intrapresa in questo secondo capitolo del suo Ritorno al futuro in chiave freak e disagiante. Dopo che ci toccherà? Celentano? Un mash-up tra Enzo Braschi e i Duran Duran? I passetti delle boy band? Se uno ha voglia di farsi trattare da anziano – o da digossino – gli basta andare a una serata universitaria, non c'è bisogno del nuovo disco di Achille Lauro.

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L'articolo Achille Lauro e la differenza tra l’arte e il juke box di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2019-10-28 12:11:00

Tag: singolo

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