A cavallo di un momento storico e decisivo nelle nostre vite — tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 — esplode, a un certo punto, Anna Pepe. Sembra proprio aver azzeccato il brano che ci saremmo trascinati dietro per anni: "Bando", pubblicato inizialmente in modo completamente indipendente e reso virale grazie all’utilizzo di TikTok, ha fin da subito tutti i crismi per diventare un instant classic.
All’epoca Anna ha circa 16 anni, e nel giro di poche settimane dalla ri-pubblicazione tramite i principali canali discografici, si ritrova a gestire una popolarità crescente, spropositata e del tutto inaspettata. Il brano ottiene diverse certificazioni di platino, entra in tutte le classifiche, fa discutere, crea dibattito. E mentre noi siamo chiusi in casa, senza troppa voglia di vedere il mondo fuori, è lì che la società inizia a subire — ai nostri occhi increduli e spaventati — un profondo cambiamento.
Prendere un aereo, superare i controlli in aeroporto, atterrare, ritrovarsi in poche ore a migliaia di chilometri da casa: questo era il mondo che avevamo costruito e che ci sembrava a portata di mano, semplice e familiare. Una routine che spesso cancellava ogni forma di attesa. D’altronde, prima vedevi una cosa sul telefono, poi in pochi click potevi averla, e una volta ottenuta non restava che segnarla nel grande taccuino delle esperienze fatte. Una volta si accumulavano oggetti. Ora si accumulano esperienze.
Poi è arrivato il 2020. Il mondo si è fermato. I modelli con cui siamo cresciuti, e che stavamo alimentando da troppo tempo, hanno cominciato a interrogarsi. E anche noi abbiamo iniziato a farlo. Abbiamo cercato di capire come la società si stesse sgretolando sotto i nostri occhi, e soprattutto abbiamo messo in discussione l’idea che quel mondo lì, e quel modo di viverlo, potessero ancora funzionare.
Per ogni cambiamento così radicale, per cui abbiamo perso giornate intere a riflettere, per fortuna ogni tanto realizziamo che noi, in fondo, siamo solo comparse, perché chi l'ha davvero capito probabilmente non è qui a leggere questo articolo.
È proprio attraverso il viaggio - mentale o reale che sia, interiore o avventuroso - che ogni generazione costruisce la propria memoria e, a ben guardare, anche la propria leggenda.
Legnano è una cittadina facilmente raggiungibile, poco lontana da Milano. Circa quaranta chilometri. Una volta arrivati per il concerto di Anna Pepe, ci comunicano che tutti i parcheggi sono pieni. E, com’è ovvio, nelle vie parallele al luogo dell’evento non si può sostare. Ovunque si vedono distese di automobili, una scena che sembra riportarci a un altro tempo. Per chi vive la città "woke", tra biciclette, mezzi pubblici, car sharing, monopattini e passaggi condivisi, questa immagine sembra appartenere a un passato remoto. Eppure è lì, davanti agli occhi. Ricorda i parcheggi affollati delle feste dell’Unità nei paesi della provincia emiliana, dove c’erano più macchine che persone.
Intorno a questa distesa di automobili non c’è quasi nulla: qualche benzinaio, una serie di villette e un viale da percorrere a piedi. Il parcheggio che riusciamo a trovare è improvvisato, dietro a un distributore, accanto a uno di quegli autolavaggi automatici. Mentre cerchiamo di sistemare la macchina, un uomo sulla quarantina, con una bambina che avrà sette o otto anni, si ferma e decide di lavare l’auto. Con tono gentile chiede dove si possa parcheggiare e dove si tenga il concerto. Poco prima mi stavo chiedendo chi potesse mai utilizzare un autolavaggio automatico dopo le otto di sera; ho avuto la mia risposta subito.
A piedi, inizia una sorta di pellegrinaggio lungo la strada. Lungo il percorso, il pubblico è eterogeneo e difficilmente classificabile: ci sono gruppi di ragazzine entusiaste, adolescenti appassionati di rap con abiti aderenti, padri con figlie, famiglie intere con bambini, madri con figlie scatenate, nonni con figli e nipoti, qualche amico del posto incuriosito. Fare una media statistica tra gli spettatori non ha senso, anche perché ognuno si porta dietro mondi propri, esperienze e contesti differenti.
Alla manifestazione Rugby Sound non ero mai stato. Una volta entrato, però, vedo un palco molto bello e una serie di uomini a petto nudo, tutti sudati, che lavorano. Muscoli tirati, fascia d’età 18-40, amanti — presumibilmente — della birra, e molto premurosi nel rispondere a ogni singola domanda del pubblico, che sia per il bar o per altre informazioni.
Il concerto inizia alle 22:01, e segno mentalmente l’orario perché, lo ammetto, sono scettico sulla durata dello show. Le zanzare rischiano di divorarci la pelle, i cellulari di annebbiare la vista. Tante luci, food truck con file interminabili, un bar invece efficiente che ti serve in fretta ciò che vuoi. Poi, a un certo punto, si alzano i decibel. Terminata una brevissima selecta di hit trap e affini — che conoscono tutti — sullo schermo compare una scritta: ANNA. Sul palco arrivano dei ballerini, e poi lei, una ragazza. O meglio: una “vera baddie”, proprio come il titolo del suo primo album. Prende il controllo del palco e, in qualche modo, anche della viabilità cittadina.
I decibel, appunto. Mentre una madre mi redarguisce perché sto fumando una sigaretta vicino al suo gruppo di preadolescenti,il rumore di fondo è così forte che le canzoni non arrivano dall’impianto, ma dal pubblico: le urla sovrastano tutto. Lo show di Anna è essenziale ma non banale: ballerini, grafiche, momenti piuttosto energici, qualche sketch con il pubblico e una capacità naturale di catalizzare l’attenzione con il linguaggio giusto, senza forzarsi a essere una popstar irraggiungibile.
Anna è la stessa ragazza che, se fosse stata nel pubblico, mi avrebbe cantato le sue canzoni urlandomi nelle orecchie. Ha il grande pregio di rendere terrene parole come drip, kink, ice, spara, bando, fake e molte altre. Parole che, prese così, sembrano uscite da un dizionario di TikTok, ma che nelle sue mani diventano popolari, musicali, condivise. A metà concerto ti ritrovi a usare anche tu quelle espressioni, canticchiando senza accorgertene.
Lo show funziona perché riesce a trascinare dentro tutti: i genitori che hanno accompagnato i figli, i ragazzini che sono usciti in gruppo per fare un po’ di casino di martedì sera, persino un paio di carabinieri — forse reduci da un we road nella settimana di ferie — che tirano fuori il telefonino e canticchiano un paio di brani. Il palco è grande, ma sembra diventare sempre più piccolo con il passare del tempo. Il concerto supera la prima ora e attorno a me si raduna sempre più gente. La fila al bar è sparita, nei food truck non c’è più nulla da mangiare, ci sono persone in piedi sui tavoli, bambine sulle spalle dei genitori, genitori appoggiati ad altri genitori. Bambini e bambine che cantano e ballano.
In un mondo che, solo pochi anni fa, sembrava essersi spento sotto il peso delle nostre domande, qui capisci che il cambiamento non si può attuare: si deve comprendere.
Anna Pepe nasce artisticamente in un momento storico ben preciso, dopo un grande successo destinato a diventare un instant classic per chi ha capito il cambiamento prima degli altri. Superare quel picco iniziale non era scontato, e invece ce l’ha fatta. Questo è un momento postmoderno della musica italiana: frammentario, veloce, caotico, ma reale. Anna ha saputo costruirsi pezzetto dopo pezzetto, senza fare il passo più lungo della gamba, senza mettersi su un piedistallo.
In autunno arriverà il primo tour nei palazzetti. Dopo quasi 90 minuti, qui lo show è finito. Ci ritroveremo ancora a parlare di Anna Pepe? A portare i figli — che forse non avremo — ad ascoltarla? Oppure anche lei crescerà, insieme al suo pubblico?
A chi, come lei, sogna di diventare la regina dell’urban, possiamo dire che ci sono poche “principesse” alla sua altezza. Ma soprattutto: la credibilità che mette nel permettere agli altri di identificarsi in lei, è un valore che continuerà a portarsi dietro.
I decibel si abbassano, mentre sul palco più piccolo parte un infernale DJ set reggaeton, con pochi partecipanti. La musica è alta, forse troppo; la coda al bar è esigua. Gli uomini a petto nudo trascinano fusti di birra e si fermano a parlare con tutte e tutti. La fila per uscire è un lento pellegrinaggio: cellulari in mano, storie da caricare, video da mandare alle amiche e agli amici. Domani non c’è scuola. Qualcuno è sicuramente partito per le vacanze, ma i genitori dovranno lavorare. La distesa di macchine si dispone in fila indiana sull’unica strada percorribile. Noi recuperiamo la nostra, parcheggiata dietro un autolavaggio.
Le luci in lontananza sono fari nella notte della provincia. In macchina, il consumo digitale riparte: invio, spunte blu, caricamenti, like, cuori, messaggi, direct, tag, menzioni, condivisioni su condivisioni. Lo vedi in coda, mentre cerchi di prendere lo svincolo giusto sulla superstrada: gli esseri umani sono già pronti a discutere in modo liquido di ciò che è appena accaduto. Noi, invece, che il cambiamento non l’abbiamo ancora davvero capito, vediamo la provincia svuotarsi uscita dopo uscita dalla superstrada, le automobili diradarsi, le luci delle case iniziare a spegnersi. Questa sera abbiamo almeno visto di chi è il mondo adesso. E, tutto sommato, poteva andarci peggio.
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L'articolo Anna e le "vere baddies" hanno il mondo in mano di Teo Filippo Cremonini è apparso su Rockit.it il 2025-07-16 10:55:00
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