Mi sono chiesto di cosa dovremmo scrivere ora. Quale slancio laterale potrebbe rendere accettabile, prima di tutto a noi stessi, lo scrivere di altro che non sia l’attualità che stiamo vivendo. Ho pensato così di lavorare a una serie di interviste che potessero farmi approdare in altri luoghi e in altre epoche. In ogni puntata di “Musiche per altri tempi” chiederò ad un ospite di Casa Verdi, la casa di riposo per cantanti e musicisti istituita da Giuseppe Verdi nel 1899 a Milano, di raccontarmi un disco dei suoi tempi. E quei suoi tempi
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«Ho fatto mezzo mondo. Olanda, Germania, Svizzera, Belgio, ho cantato ovunque come tenore concertista. Non saprei da dove cominciare», dice Beniamino Trevisi, nato il 16 luglio 1926 a San Benedetto Po, in provincia di Mantova. Ha vissuto così tanto, sembra voler dire, e così in pienezza, da non riuscire a fissare con precisione ogni singolo momento della sua carriera e della sua vita. Mentre racconta un evento, la voce e la testa già ne rincorrono un altro. «Quando vengono qui, tutte le nazioni non vogliono più andare via», dice riferendosi ai giornalisti provenienti da varie parti del mondo che l’hanno intervistato in questi anni; eppure l’immagine delle nazioni che ridisegnano la geografia del pianeta per spostarsi in Italia, a Casa Verdi di Milano, mentre la racconta appare plausibile.
«Cantavo in un coro in chiesa a Suzzara, “Non ti scordar di me”, “Partivano le rondini”, e tutta la gente si fermava ad ascoltarmi. Due insegnanti mi portarono a fare un’audizione al conservatorio di Parma, dove fui poi preso. Fra il pubblico di uno dei saggi del conservatorio era presente il marchese Pallavicino”. E così, grazie alla famiglia Pallavicino, gli furono aperte - letteralmente - le porte della villa di Giuseppe Verdi a Sant’Agata e della casa del tenore Beniamino Gigli. «Tutte le domeniche pomeriggio i Pallavicino mi portavano nella tenuta di Verdi. La nipote del compositore preparava torta e tè e il marchese mi accompagnava al pianoforte mentre cantavo le arie. Avrò avuto diciotto, vent’anni, e mi esibivo nei migliori Salotti». Nel 1853, proprio in quella tenuta, Verdi compose La traviata. «Quando la cantavo, e nel primo Atto facevamo il brindisi in scena, io guardavo gli spettatori e anche loro brindavano», dice Trevisi, e ancora una volta la memoria diventa quasi onirica, un teatro che diventa un capodanno, in cui artisti e pubblico condividono finzione e realtà. Di quelle domeniche nella tenuta di Giuseppe Verdi, oltre alla merenda con sonata, conserva memoria del luogo, delle carrozze, dei terreni infiniti. “Non sto facendo nulla”, scriveva da questo panorama Verdi nel 1855 alla contessa Maffei, “Non leggo. Non scrivo. Cammino nei campi dalla mattina alla sera, cercando di recuperare, finora senza successo, dai problemi di stomaco che mi ha causato I vespri siciliani. Maledette opere”. Nel luglio del 1867 Giuseppina Strepponi, sua seconda moglie, confessava invece all’editore del marito, Leone Escudier: “Il suo amore per la campagna è divenuto mania, follia, rabbia, furore, tutto ciò che si può immaginare di più esagerato. Egli si alza al nascere del giorno per andare a esaminare il grano, il mais, la vigna. Rientra morto di fatica e allora come trovare il modo di fargli prendere la penna?”.
Esattamente a 489 chilometri di distanza dalla tenuta di Sant’Agata, in via del Serchio 2, nel quartiere Coppedè di Roma, si trova un’altra dimora d’artista. Quella di Beniamino Gigli, uno dei più grandi tenori del Novecento. «Nel ’52 il marchese Pallavicino mi portò anche lì. Mi hai rubato il nome, mi disse Gigli, quando venni presentato. Io tremavo. Gli cantai “Ch’ella mi credeva libero e lontano”, tratto da La fanciulla del West, l’opera di Giacomo Puccini. A fine esibizione, Gigli mi disse: Non mi hai rubato solo il nome, mi hai rubato anche la voce. Per quindici giorni, ogni mattina, andavo a prendere lezioni da lui». Nel trentunesimo giorno della quarantena italiana ascolto “Ch’ella mi credeva libero e lontano” cantata al Carnagie Hall di New York, il 17 aprile del 1955, proprio da Beniamino Gigli. Fu l’ultimo concerto della carriera. Dal secondo 38 al secondo 56, nel culmine della parte, ripete “E passeranno i giorni, e passeranno i giorni. Ed io non tornerò”. Sono diciassette secondi che continuo a riascoltare mandandoli indietro, senza arrivare mai alla fine del brano ma operando quasi un campionamento e facendone un loop in cui in realtà lui torna.
La fanciulla del West è un’opera in tre atti del 1910, ambientata alle pendici delle montagne della Sierra, in California. La scena si svolge a metà Ottocento, nel periodo della febbre dell’oro. Il primo atto si apre al Polka, un locale per minatori. “Uno stanzone costruito rozzamente in forma di triangolo”, così viene descritto nel libretto dell’opera, da cui “attraverso le finestre si scorge la valle, con la sua vegetazione selvaggia di conifere basse, tutta avvolta nel fiammeggiare del tramonto. Lontano, le montagne nevose si sfumano di toni d’oro e di viola. La luce violenta dell’esterno, che va calando rapidamente, rende anche più oscuro l’interno della «Polka»”.
Su una parete è affissa una taglia di cinquemila dollari per il bandito Remerrez. La proprietaria, Minnie, si innamora di un uomo che entra nel locale, tale Johnson, che si rivelerà essere il bandito. La donna cerca di salvarlo dallo sceriffo giocando a poker e mettendo in palio la sua libertà, in caso contrario condanna per entrambi. Giacomo Puccini, durante il periodo di lavorazione dell’opera, scriveva alla sua amica Sybil Seligman: “La mia vita passa in mezzo alla tristezza e alla più grande infelicità […] Come risultato La Fanciulla si è completamente inaridita – e Dio solo sa quando avrò il coraggio di riprendere il lavoro”.
Dal libretto, che leggo mentre ascolto l’esecuzione del 2013 a Vienna, mi appunto il dialogo tra il bandito e lo sceriffo:
JOHNSON
(Freddamente, poi esaltandosi)
Risparmiate lo scherno...
Della morte non mi metto pensiero:
E ben voi tutti lo sapete!
Pistola o laccio è uguale...
Se mi sciogliete un braccio,
Mi sgozzo di mia mano!
D'altro voglio parlarvi:
Della donna che amo...
(Un mormorio di sorpresa serpeggia fra
La folla dei minatori)
RANCE
(Ha uno scatto, fa come per avventarsi su Johnson, poi
Si frena e gli dice con freddezza guardando l'orologio)
Hai due minuti per amarla ancora…
Alla domanda: “A che ora consiglia di ascoltare o vedere quest’opera in questi giorni?”, Beniamino Trevisi mi ha risposto “sempre”. «Tante volte mi metto alla finestra della mia stanza a Casa Verdi e canto», una delle frasi appuntate durante la nostra telefonata. La stessa cosa me l’aveva raccontata nella precedente puntata di Musiche per Altri Tempi Dina Moreno. Mi immagino così piazza Buonarroti come un calendario dell’avvento in formato reale, le finestre si aprono svelando ogni giorno un canto diverso. L’ultima frase appuntata è questa: «Mi volevano portare in America a cantare ma a 93 anni per quando ci arrivo sono già morto».
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L'articolo Beniamino Trevisi, Beniamino Gigli e "La fanciulla del West" di Valerio Millefoglie è apparso su Rockit.it il 2020-04-11 08:34:00
COMMENTI (1)
Quanta struggente nostalgia in questa intervista!