Estratto di "Buon Appetito", il racconto pubblicato da Dente

Il racconto di Dente tratto dal libro "Cosa volete sentire - Compilation di racconti di cantautori italiani", a cura di Chiara Baffa

Illustrazione di Giordano Poloni
Illustrazione di Giordano Poloni

"Buon Appetito" è il racconto che Dente ha scritto per il libro "Cosa volete sentire - Compilation di racconti di cantautori italiani", pubblicato da Minimum Fax e a cura di Chiara Baffa. Vi proponiamo un estratto, nel quale Dente racconta come è nata "Buon appetito" e quanto possa essere fondamentale una segreteria telefonica nella vita di un cantautore.
 

[...] Ci mostrano i camerini. I camerini sono una stanza senza soffitto, la stanza è dietro al palco. Ci sono due grandi divani, un armadio, un tavolo vuoto, un grande lavandino e una doccia. I divani saranno anche il giaciglio su cui dovremo dormire questa notte. Facciamo i suoni e poi ci spiegano come si svolgerà la serata. Il presentatore è un noto musicista di un noto gruppo del capoluogo della regione in cui sono nato. Il gruppo organizza queste serate e molte altre cose nel nome della famosa etichetta. Ci portano la pizza nel cartone e ci mettiamo a mangiare su un tavolino appoggiato alla parete. Buon appetito.

Il tempo di un caffè nel bar adiacente e torniamo sul posto, ci mettiamo nel retropalco e aspettiamo, fumiamo sigarette cercando di alleviare la tensione. Il pubblico inizia a entrare: quando saliamo sul palco il locale è pieno all’incirca per un quarto. Lo spettacolo fila via liscio tra canzoni, battute e vino rosso. Forse il troppo vino rosso e la sala che si svuota velocemente alla fine del concerto fanno sì che il giovane ragazzo decida di tornare a casa a dormire, io collasso nel camerino dietro al palco, e del famoso bassista si perdono le tracce.

Il mattino seguente mi sveglio accartocciato sul divano, ancora vestito come la sera prima, con l’abito da concerto, quello che metto sempre e che mi fa sentire a mio agio. Sul divano di fronte al mio c’è un ammasso di coperte da cui esce la testa del famoso bassista. Mi alzo e giro per il locale vuoto e ancora sporco di serata, la porta d’ingresso è chiusa e non so come uscire. Sul divanetto vicino all’uscita trovo uno spartito, la canzone la conosco bene, è un pezzo italiano di un autore che amo molto. Prendo la chitarra e mi metto a suonare e cantare fino a che non l’ho imparata tutta, poi la ricanto e mi viene da piangere, la capisco e la sento veramente forse solo in questo momento, nonostante l’abbia ascoltata centinaia di volte. Dalla cucina si alzano dei rumori e spunta, dal bancone del bar, come un capitano dalla prua di un galeone, un ragazzo dalla faccia addormentata. Gli chiedo se posso uscire, lui mi apre la porta scardinando il lucchetto che immobilizzava le maniglie con una grossa catena.

Il parco nel quale si trova il locale non è un granché, somiglia a molti parchetti abbandonati di periferia, ma quel mattino, uscendo da quel capannone buio e sporco, mi sembra di entrare in paradiso. Il sole del mattino e l’aria tiepida della primavera sono come una gioia silenziosa che, unita alla canzone lacrimogena che continua a girarmi in testa, scatena una reazione strana. Con la chitarra ancora in mano mi siedo sulla panchina che sta di fronte all’ingresso e inizio a suonare un giro di accordi e subito mi escono delle parole: «Sapessi che felicità mi dà / l’idea di non vederti più». Vengo avvicinato da alcuni ragazzi che, usando un italiano stentato, mi offrono la birra che stanno bevendo da grandi bottiglie marroni. Rifiuto con un gesto e torno dentro. Non so quanto tempo sono rimasto sulla panchina, ma al rientro nelle tenebre ho già una strofa con il testo e il ritornello completo.

In camerino il famoso bassista si è liberato delle coperte, io continuo a ripetere la canzone perché non la voglio perdere, canto e suono in giro per il locale, davanti al bancone, sul palco, sotto, fuori, dentro. Non mi posso permettere di dimenticarla, ma dobbiamo tornare nel capoluogo della regione in cui vivo, e qui non c’è niente per registrare. Il mio telefonino è troppo antico, e il suo, che invece ne sarebbe capace, è completamente scarico, e ovviamente non c’è un caricabatterie nel raggio di chilometri. Se lascio la chitarra adesso e faccio due ore di macchina sicuro che mi dimentico tutto. Mi maledico per non aver studiato musica da piccolo. Pensa che bello, basterebbero un foglio e una penna e potrei scrivere la melodia, ma è troppo tardi per questi pensieri, bisogna partire perché il famoso bassista deve arrivare in tempo per le prove del suo gruppo che sta registrando un nuovo disco. Siamo entrambi nel parco dietro al locale in attesa di partire e io gli dico che se non trovo il modo di registrare non parto.

Aspettiamo un’idea, seduti di fianco al campo da basket in disuso. Io suono e canto, e alla fine del ritornello infilo tre accordi che finiscono in una sospensione dentro la quale sento applausi e suoni acidi che entrano sfumando. Dico: «Senti! Se qui dopo entra una cosa tutta strana un po’ acquatica, rarefatta, e poi da un momento all’altro riparte tutto...» Non so se mi capisce oppure no, ma io la sento e tutte le volte che risuono quei tre accordi, in testa mi riparte la stessa cosa. Arriva in un lampo, l’idea: il famoso bassista ha il telefono spento, quindi chiamandolo partirà la segreteria e io potrei registrare lì il pezzo, poi una volta a casa potrei riascoltarlo in tutta tranquillità. Ottimo. Ma c’è un problema. Il mio telefono non ha credito, sono senza soldi e non posso chiamare.

Siamo in mezzo a un parco, e quindi non c’è possibilità di acquistare una ricarica. Facciamo due passi a piedi mentre io, imperterrito, canto e ricanto dentro di me come se fossi appeso alla radice di un fiore, penzoloni su un precipizio. Facendo qualche metro e circumnavigando il capannone che contiene il locale, c’è una casupola con la porta e la finestra entrambe aperte. Dentro, una signora sui cinquanta e una ragazzina sui tredici. Fuori, di fianco alla porta d’ingresso, una targa con su scritto: scuola di musica.

Entriamo e chiediamo se è possibile utilizzare il telefono fisso, e la signora, attorniata da disegni appesi alle pareti che raffigurano note, pentagrammi, strumenti musicali, ci dice che non c’è un fisso ma che può prestarci il cellulare. Le spieghiamo il perché, e mi pento nuovamente di non aver studiato. Mi tocca fare questa cosa proprio in una scuola di musica. Ma il desiderio di fotografare quella melodia è più forte di ogni imbarazzo. Telefoniamo dunque al numero del famoso bassista. Risponde la segreteria. Lasciate un messaggio. Inizio a suonare con l’apparecchio tenuto a mezz’aria davanti a me, canto la melodia senza parole, perché delle parole mi vergogno sempre un po’. Strofa, ritornello, passaggio che sfocia nella psichedelia. Fatto. Scambiamo due battute con la signora, che è simpatica e gentile, qualche risata e saliamo in macchina.

Io mi sento molto meglio, liberato da un peso, felice per aver risolto ma sempre con la paura che la tecnologia mi possa abbandonare da un momento all’altro. Viaggiamo, parliamo, ascoltiamo le registrazioni del nuovo disco del gruppo del famoso bassista e ci fermiamo a mangiare un panino alla stazione di servizio. Buon appetito. Ripartendo, mi rendo conto che la canzone se n’è andata, non ricordo più niente se non quelle poche parole che mi sono uscite subito. La melodia è svanita, forse è rimasta nel parco tra le bottiglie vuote e le margherite appena nate.

Arriviamo a casa mia e mettiamo in carica il telefono, faccio un caffè. Dopo qualche minuto ascoltiamo la segreteria. Hai un nuovo messaggio vocale. Quel «vocale» mi spaventa perché mi aspetto che ci sia registrato qualcuno che parla al posto della mia canzone. Sento partire gli accordi dal telefono e mi tranquillizzo, riascolto e mi torna tutto in mente. Riaggancio e registro di nuovo sul portatile, chitarra e voce, questa volta con qualche parola, perché mi vergogno meno se c’è soltanto il famoso bassista ad ascoltare. Sei mesi dopo incido la canzone, che uscirà di lì a un anno. [...]


(c) Giuseppe Peveri, 2011 - minimum fax, 2011. Tutti i diritti riservati

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L'articolo Estratto di "Buon Appetito", il racconto pubblicato da Dente di Redazione è apparso su Rockit.it il 2011-11-28 00:00:00

COMMENTI (5)

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  • maryministrica 13 anni fa Rispondi

    ...un picoolo grande scrittore....

  • valmar93 13 anni fa Rispondi

    e la musica che si ha paura di perderla da un momento all'altro. davvero bellissima e meno male che Dente ha fatto di tutto per non dimenticarsela.

  • vespuccia77 13 anni fa Rispondi

    miracolo italiano!!!l'ho scoperto per caso non posso più stare senza :Dente la soluzione ad ogni mia " assenza "...intesa come giornate vuote da me stessa!

  • occhialiscuri 13 anni fa Rispondi

    perchè non ho studiato musica da piccola.

  • 13 anni fa Rispondi

    dente scrive veramente bene, lo vedrei bene come scrittore di libri