La Generazione Sticazzi ucciderà la musica autoreferenziale

Gli artisti devono immaginare il futuro, non arrugginirsi sul passato e negli Anni Venti del covid ogni storia vale la pena di essere raccontata, non solo la propria, per non incorrere nelle ire o nell'indifferenza del pubblico, anch'esso cambiato dalla pandemia

Un cantautore che è una scimmia ammaestrata? Nessuno ha detto questo. Foto di Peter Fischer
Un cantautore che è una scimmia ammaestrata? Nessuno ha detto questo. Foto di Peter Fischer
11/05/2021 - 10:20 Scritto da Simone Stefanini

La canzone d'autore italiana si divide in due grossi tronconi: quella originale che copre tutti gli anni '60 e i '70, strascicandosi stancamente negli anni '80 con pochi superstiti e quella della rinascita, degli anni '10 del Duemila, dei cantautori che raggiungono i primi posti delle classifiche e vengono bollati come Itpop, che parlano la lingua dei ragazzi e assurgono alla funzione di romanzo di formazione. Per fare questo parlano di se stessi, della propria vita, mettono a nudo insicurezze, relazioni, vincoli familiari, terapie, ascese e cadute. Cantautori che sono libri aperti, molluschi senza conchiglia, osannati dalla Generazione Z ma anche dai millennials, perché mostrano le proprie debolezze, cicatrici, ferite. Gli anni '10 vanno così, col cantautorato che vince dischi d'oro, riempie palasport e stadi accolto da folle urlanti che, con una mano al cielo e nell'altra la storia Instagram, cantano di disavventure e peripezie degli autori, sentendole proprie.

Ogni decennio però ha la sua wave, la sua onda che o la sai surfare o ti butta giù e poi è un casino risalire in superficie.  Arrivano gli Anni Venti, quelli che nel Novecento sono stati caratterizzati dal charleston, dal jazz e dal proibizionismo, dalla ricostruzione degli Stati distrutti dalla guerra fino alla grandissima, infame crisi economica. Insomma, i tempi bui ce li potevamo anche aspettare, giusto per assonanza. La pandemia prende in ostaggio il mondo a tanti di quei livelli che riusciremo a capirla davvero fra cinque anni se va bene: sanitario, economico, psicologico, occupazionale, relazionale, sessuale. Il mantra della maggior parte dei cittadini italiani diventa quello di rimanere vivi, non infettare i familiari, arrivare a fine mese, restare sani di mente, trovare qualcosa da fare nei lunghi mesi rinchiusi in casa. La musica per il pubblico generalista diventa un bene di conforto, serve per rassicurare. Tornano in classifica vecchi classici, immutabili, che parlano di un tempo che sembra remoto, mentre i nuovi cantautori si perdono un po' per strada, tutti. 

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Una citazione attribuita a Bertolt Brecht dice: "Se bisogna cantare nei tempi cupi, allora si deve cantare dei tempi cupi". Mi perdoneranno gli eredi se non è sua, ma è il pensiero che conta. Solo che i cantautori sono persone, e si trovano esattamente come tutti gli altri lavoratori, nella merda. Mentalmente e professionalmente. Di che cosa parla veramente una canzone quando la vita che conoscevamo non esiste più e quella che sarà non è ancora arrivata, quando si costruisce un nuovo pensiero, una nuova coscienza, un nuovo sentire giorno per giorno? È un problema che per anni nessuno si è mai posto veramente, perché a differenza della generazione cantautorale precedente, la leva degli anni '10 non sa inventare granché

Non immagina la paura di Nino nel tirare un calcio di rigore, non riesce a calarsi nei panni di un'eroina tragica che è un enorme mistero in volo, né nelle parole del ladrone che muore accanto a Gesù accusando il sistema, non riesce a intercettare un cambiamento generazionale nella profondità del mare, non prende favole da bambini per trasformarle in attacchi al potere. Riesce a penetrare il proprio dolore fino a un certo punto, più estetico che reale, sfiorando solamente analisi personali di una crudezza chirurgicamente poetica (Vedrai vedrai di Luigi Tenco su tutte). È un cantautorato consolatorio, quello degli anni '10, che si ispira ai grandi maestri ma che, spesso, finisce per essere un diario in musica della vita dei cantanti, dei propri disagi, delle proprie avventure, bravate, dei propri drammi, delle proprie convinzioni. 

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Un sacco di canzoni generazionali hanno per soggetto "io", che fanno presa sul pubblico di target 18-35 alla ricerca di conferme dei propri imbarazzi e dei propri malesseri che non hanno una forma. Una sorta di terapia gestalt della canzone italiana, con un linguaggio e delle allegorie semplificate, per prendere un po' tutti trasversalmente. Per non fare di tutta l'erba un fascio, qualche artista riesce a discostarsi dal trend generale pure con ottimi risultati (Brunori c'ha tirato su una carriera sulla narrazione dei poveri cristi, Lucio Corsi artisticamente vive solo di storie immaginifiche, Colapesce e Dimartino sono riusciti nel difficile intento della hit che parla di morte, Andrea Laszlo De Simone o Iosonouncane non hanno mai flirtato con l'itpop), fatto sta che quando si capisce che parlare di se stessi rende, i cantautori della leva degli anni '10 ci si tuffano a capofitto, fino a raccontarci i fatti propri più intimi.

Gli anni Venti e il covid però portano una novità assoluta nel rapporto tra star e comuni mortali: come la livella di Totò, la pandemia appiana tutto, e d'un tratto al pubblico interessa sempre meno sentir parlare delle storie personali dei cantanti, perché sono assolutamente identiche a quelle di tutti. La paura di morire, l'impotenza di fronte a qualcosa di più grosso di chiunque, fa sì che ciò che prima sembrava straordinario, diventi insignificante. 

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È l'inizio della Generazione Sticazzi: non puoi più lavorare come prima? Nemmeno io. Sei depresso? Anch'io, ma ho meno soldi di te, quindi perlomeno non mi rompere i coglioni. Sei stato lasciato dalla ragazza, dal ragazzo, dal cane? Beh, capita a tutti, ripigliati. Hai subito un lutto? Buongiorno, quasi tutti in Italia hanno avuto a che fare con la morte. Per il cantautore abituato a pensare che mettere in mostra la propria vita fosse un evento importante, straordinario, diventa un periodaccio. È un po' come il PD in un mondo di leghisti: o torni a parlare approfonditamente con la tua base e a vivere le problematiche della comunità, oppure rischi di parlarti addosso e restare invischiato nelle tue burocrazie personali, senza renderti conto che all'esterno in pochi pendono ancora dalle tue labbra. 

Il pubblico, anche quello più fragile, è cresciuto, si è indurito, ha sviluppato una forza e una pazienza sulla lunga durata (quella parola che inizia per R e che non userò nemmeno picchiato di notte con un tubo di ferro) che  non avrebbe creduto di avere, e soprattutto sembra aver intercettato prima degli artisti che questi sono tempi liquidi ancora di più di come li intendeva Bauman, che chi non si adatta soccombe. Che siamo tutti il primo pesce che ha imparato a camminare. Reiterare modelli che hanno avuto successo nel Tempo di Prima potrebbe essere un problema nella carriera di un artista, perché dobbiamo venire a patti col fatto che quel tempo non esiste più, e quando torneremo a giorni meno movimentati, sarà un nuovo tipo di normalità mai sperimentata in precedenza. Si servirà certo dei ricordi e delle storie personali, ma in covid come in guerra ogni storia è degna di essere raccontata, questo ci rende ancora più comunità di quanto siamo disposti ad ammettere. Un ammasso di individui, una specie che lotta per la propria sopravvivenza. Messa così fa venire i brividi, vero?

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Allora ci sta di gettare il cuore talmente oltre l'ostacolo da farlo raggiungere territori inesplorati, liberi, sconosciuti, che mettono paura e che contemporaneamente stimolano tutti i sensi. Gli artisti devono immaginare il futuro, non arrugginirsi sul passato. Come debba essere, lo stiamo capendo ognuno a modo suo ora dopo ora. I dischi saranno diversi, il loro ascolto sarà diverso, i concerti saranno diversi e tutti importanti. Stiamo resistendo, non è più tempo per mettere in musica litigi stupidi tra fidanzati, serate matte ubriache, bachate nei club sudati o alberi genealogici delle proprie sfighe. È arrivato il tempo di evolvere, di mettersi davvero alla prova, di plasmare la propria arte al tempo reale, non a quello lasciato alle spalle. 

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L'articolo La Generazione Sticazzi ucciderà la musica autoreferenziale di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2021-05-11 10:20:00

COMMENTI (2)

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  • pons 3 anni fa Rispondi

    Molto bella questa analisi. Chi ci mettiamo negli artisti della generazione sticazzi?

  • Bluenote 3 anni fa Rispondi

    Mi è piaciuto molto il quadro che hai fatto. Mi permetto di aggiungere che anche i dinosauri rokkettari come me, datati, ma sempre affamati di musica, si sono rotti del nulla già dalla metà dei 90. Chi ha vissuto 70 e 80 schiaffeggiato quotidianamente da artisti eccezionali ha rischiato di rimanere bloccato e pateticamente ancorato, senza evolvere. Per cui sempre orecchie appizzate, pronti a fermarsi quando qualcuno ti colpisce, non importa chi o come, qualcuno che ti sa parlare e tu ti fermi e ascolti. Ma il nulla non ti fa girare, il già sentito in tutto e per tutto ti appesantisce le parti basse. Per cui la generazione sticazzi è trasversale e multiage. Ma io spero sempre, accendo la radio e provo, non serve l' effetto placebo di rimettere seppur piacevolmente Bennato o De Gregori o i King Crimson, di cui hai l' opera omnia, due palle. Ci sarà come sempre una sorta di corso ricorso storico alla Vico, tutta questa banda di insulsi che come hai detto si sono buttati a capofitto sull' utile, privi di una qualsiasi dote artistica spariranno, qualcono ci stupirà prima o poi ne sono certo. Senza musica si muore dentro, per cui..