Canzoni dalla clinica fuori città

Pugni è un cantautore, ma nella vita di tutti giorni fa lo psicologo in una clinica psichiatrica. È qui che entra in contatto con un'umanità incredibile, che troppo spesso non abbiamo il coraggio di guardare. Il racconto delle sue giornate, e di come la musica spesso sia il primo passo della terapia

Pugni sulla copertina del singolo "Talento"
Pugni sulla copertina del singolo "Talento"

Pugni è il nome d'arte di Lorenzo Pagni, cantautore pisano classe 1993. Il suo percorso di vita è molto particolare: da ragazzo è una promessa del canottaggio, ottiene anche qualche riconoscimento a livello internazionale, ma col tempo è la musica a diventare la sua passione principale, a cui si dedica da anni ormai. Parallelamente, però, Pugni si dedica a un'altra materia: la psicologia. Dopo essersi laureato ha iniziato a lavorare presso una clinica psichiatrica, dove tutt'ora esercita la sua professione. Il contesto, come si può immaginare, è di quelli duri da affrontare, e al contempo una fonte di ispirazione per la sua musica, come dimostra anche il suo ultimo singolo "Talento", con al centro proprio il rapporto tra società e malattia mentale.

Questo scambio al tempo stesso è una chiave fondamentale per metabolizzare le giornate in clinica ed entrare in contatto con i pazienti, visto che la musica riesce spesso ad aprire delle porte emotive che altrimenti rimarrebbero sigillate. Abbiamo quindi chiesto a Pugni di raccontarci questa sua doppia vita dentro e fuori il lavoro. Lui ci ha risposto con questo testo molto personale e altrettanto bello.

Per arrivare al posto dove lavoro si deve salire su una collina. Lassù, un po’ distante e separato dal paese sottostante. Lascito dell’eredità manicomiale, dato che la clinica è nata nel 1898. Il primo giorno che sono entrato lì dentro è stata proprio questa la prima impressione: quella di entrare in una dimensione parallela, posta su un livello diverso da quello che siamo abituati a vivere in metro, per strada, in un locale, in spiaggia.

L’odore è la prima cosa che noti, come se il dolore avesse una consistenza invisibile ma percepibile, un peso specifico che ti si deposita sulla pelle e si incastra tra le costole. La seconda sono le facce. Se fossi un regista, andrei a costituire il cast pescando da un posto come quello, perché nessuno lì dentro ha bisogno di recitare per bucarti la gli occhi.

Ho iniziato il mio percorso lì dentro come collaboratore esterno: andavo una volta a settimana a proporre delle attività artistiche in cui la musica era la protagonista. Da subito mi sono reso conto della quantità di artisti che finiscono in psichiatria: musicisti, poeti, scrittori, pittori, persone con una sensibilità rara, che li rende scoperti, vulnerabili agli attacchi di un mondo che non accoglie, ma pretende adattamento e performance. Adesso sono quattro anni che lavoro lì dentro e ogni giorno ho la possibilità di ascoltare storie di vita al limite del credibile, visioni sul mondo e sull’Universo che può produrre solo chi ha rotto i legami tra significante e significato, chi ha squarciato il velo di Maya, oppure ne ha tessuto uno di un colore che ancora non esiste.

In tutto questo c’è sempre la musica: nel mio studio ho una chitarra, che tra una seduta e un’altra mi aiuta a rimettere insieme i pezzi, oltre ad essere un ottimo gancio per le persone restie a parlare di sé.
Ad esempio arriva Diego, un ragazzo di 20 anni incazzato col mondo, che tutto vorrebbe tranne che stare lì rinchiuso, tanto meno sedersi su una poltroncina davanti ad uno sconosciuto che gli fa domande. Allora magari nota la chitarra, mi chiede se suono, gli dico di sì e lui riesce ad andare oltre il mio ruolo di clinico. Gli parlo dei miei gusti musicali, poi gli chiedo cosa ascolta. Si può capire molto di una persona dalla musica che ascolta, soprattutto quando è in un momento di difficoltà.

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Per fare una diagnosi di disturbo mentale, stando al DSM, è necessario che sia presente una “significativa compromissione del funzionamento sociale”, ovvero una condizione nella quale non si riesce più a produrre, a funzionare, ad adattarsi al contesto. La domanda che mi viene spontanea, e che ho espresso anche nel mio ultimo brano Talento, è la seguente: se una persona “malata” è considerata tale se non riesce ad adattarsi al contesto, significa che tale contesto viene considerato sano, giusto. Ma ne siamo sicuri di questo? Vogliamo veramente prendere come standard di riferimento quello imposto dal mondo che stiamo vivendo? Per quanto mi riguarda, credo che sia proprio la società a far ammalare le persone.

Per quanto riconosca la funzione protettiva della limitazione della libertà, mi viene difficile accettare la chiusura delle persone all’interno di una struttura: rischia di ostracizzare e di creare una differenziazione netta e invalicabile tra il “dentro” e il “fuori”, tra “normali” e “pazzi”. Inoltre, i servizi sono totalmente saturi e non riescono a rispondere alla crescente richiesta di sostegno da parte di una popolazione sempre più sofferente. Questo comporta delle grosse falle nel sistema: ci sono persone, tra cui un sacco di ragazzi e ragazze giovanissime, che sono letteralmente “parcheggiate” in strutture come quella in cui lavoro senza uno straccio di progetto di riabilitazione e reinserimento nella comunità. Sono diventati lo scarto della società, dei pezzi rotti che non servono più: li rinchiudiamo in delle strutture dove vengono somministrati farmaci che se usati bene possono salvare la vita, ma che si configurano spesso come uno strumento di controllo sociale, soprattutto per i pazienti considerati “pericolosi”.

Sono consapevole che questa possa sembrare una posizione estrema, ma purtroppo in questi quattro anni ne ho viste tante, troppe, e credo di aver sviluppato un un certo rigurgito anti-psichiatrico. Fortunatamente nascono i fiori pure dalle crepe nel cemento.

Ed è qui che la musica, l’arte esprime il suo potere salvifico, non solo per i pazienti, ma anche e soprattutto per gli operatori. Nella clinica dove lavoro è stato fondato un collettivo, il “Collettivo artistico Dacqua”, una realtà composta, senza differenziazioni di sorta, da pazienti e operatori. Crediamo fermamente in una riabilitazione che faccia leva sulle parti sane delle persone in difficoltà. Abbiamo testimonianza quotidiana del fatto che per quanta neve cada sull’animo umano, rimanga sempre un tizzone ardente, magari ben nascosto, ma pronto a riaccendersi se si capisce come soffiarci sopra.

Stiamo lavorando in collaborazione con artisti di ogni disciplina: danza, teatro, pittura, scultura, videomaking, e, ovviamente, musica. Nei nostri laboratori le persone hanno la possibilità di esprimere la loro individualità senza il peso del giudizio e della performance e con gli strumenti adeguati per la rielaborazione ed integrazione delle parti profonde che emergono nelle opere prodotte. Si tratta di una piccola, grande rivoluzione che parte dall’interno delle mura della psichiatria, con l’intento di romperle.

Per quel che riguarda me, la musica non è solo uno strumento di lavoro all’interno della clinica, ma anche e soprattutto la mia terapeuta. Le giornate a lavoro talvolta mi riempiono così tanto da essere saturo di umanità, tanto da sentire l’assoluta necessità di arrivare a casa e liberarmene, scrivendole, cantandole, urlandole. Non so quanto tempo ancora la mia vulnerabilità mi concederà di lavorare qui dentro. In ogni caso, sono sicuro che quello che ho immagazzinato mi ha cambiato il modo di scrivere, di cantare, di vedere il mondo, di essere.

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L'articolo Canzoni dalla clinica fuori città di Lorenzo Pagni, in arte Pugni è apparso su Rockit.it il 2025-11-11 12:34:00

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