La Casbah, la fotografia di una generazione ormai perduta

La storia della band che da una stanza in affitto a Ragusa ha fatto l’underground italiano (e non solo) degli anni Novanta. Dal primissimo demo, ai live memorabili, fino alla reunion di quest'estate. La vera via dell’anarchia era nella loro musica e non possiamo dimenticarcelo

In arabo "Qasba", volgarizzato in "Casba" oppure "Kasbah", dall'etimo "Quasaba", è un fabbricato, fortezza o cittadella di una città araba. I quattro ragazzi siciliani che nel 1996 decidono di mettere su un gruppo con questo nome, La Casbah  omaggiando lo slang coniato dai Clash, (Rock the) Casbah – sono stati ottimi interpreti dello spirito del tempo che arde non soltanto a Ragusa, ma anche in altre città italiane.

La loro idea di Casbah, probabilmente, non è la provincia siciliana nella Val di Noto in cui si trovavano – allora neanche illuminata dai riflettori datigli negli anni a venire da Camilleri e dal suo commissario –, bensì il basso, o meglio: la stanza in affitto usata come sala prove in una via della silente provincia barocca.

La Casbah - da qualche parte sul mare (1999)
La Casbah - da qualche parte sul mare (1999)

E dove passavano il tempo, tra una prova e l'altra, ascoltando la radio sintonizzati sulle frequenze in AM: "Dall'estrema punta d'Italia ci arrivavano nitide le onde radio, le lingue e la musica della Tunisia, dell'Albania e della Libia", ricordano i ragusani e, continuano: "La biblioteca degli Anarchichi di Ragusa era colma di libri pericolosi e maledettamente affascinanti. Fu allora, in un epoca dove non esistevano i social, che scoprimmo la letteratura palestinese e di getto abbracciammo la causa degli shabab".

L'omonimo disco del '99 – La Casbah, Autoproduzione –, esprime di sicuro uno zeitgeist degli anni Novanta come meglio non si potrebbe, anche se sembra persino folle dirlo. A meno che non vi troviate tra quelli che pensano lo stesso, non so, di Occhi Rossi A Colazione dei Nuvolablu – uscito, non a caso, l'anno prima – o di una delle tante band di culto scovate in rubriche dai nomi più che esplicativi – Sotterranei, Targato Italia, e altri –.

Ce li ricordiamo bene noi gli ultimi scampoli di Nineties. Gli anni in cui, se sei nato sul finire dei Settanta, ha preso forma l'identità musicale di un ex adolescente; sono gli anni in cui gli eventi importanti, belli o brutti che siano, iniziano ad avere un loro peso specifico, perché vissuti con una consapevolezza diversa, sia dall'avanscoperta adolescenziale che dall'ebete ottimismo infantile; sono gli anni in cui, ad avere un po' di personalità, inizi a scrollarti di dosso il cordone ombelicale della comitiva, dei 'mbari e dei frà, e ti fai i primi concerti da solo, per dire. Perché interessano a te, perché piacciono a te, e non per seguir una non meglio specificata corrente giovanile.

Ebbene, ci sono delle immagini, reali o della memoria, legate al tramonto dei Novanta che hanno su noi lo stesso effetto che le piccole madeleines ebbero sul Proust de Alla Ricerca del Tempo Perduto. È quello che succede vedendo il video di Eliogabalo de La Casbah. Apripista di quello che sarebbe dovuto essere il loro secondo disco rimasto inedito, uscito a sorpresa solo l'anno scorso in streaming su Bandcamp e Spotify.

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Cinque minuti di filmati che sembrano avere la regia del Virzì in pieno exploit da Ovosodo, il suo film del 1997. Quindi la fotografia di una generazione che sembra andata oramai perduta. Ricordata – parafrasando – attraverso quel gran casino di pasti saltati, mezzi di trasporto che non partono mai, pause caffè in Autogrill, una moltitudine di concerti visti e sentiti, i CSO, le kefieh e i dreadlocks, il movimento studentesco della Pantera, il calcetto, le sbronze, nuove posse, vecchie canne, i Mau Mau, i Mano Negra e la solita "puzza di piedi di rientri all'alba con la testa ancora rintronata".

Del resto, se quella di Virzì è una Livorno caput mundi che commuoverà pure la regista neo-zelandese Jane Campion alla Mostra del Cinema di Venezia, la casbah dei nostri ha un respiro più ampio dei soli confini ragusani ed è in grado di affascinare un più ampio numero di critici dotti e ascoltatori attenti in ogni dove.

La Casbah al Rock Oise (Francia 2000)
La Casbah al Rock Oise (Francia 2000)

"Il nostro primissimo demo, rigorosamente su quattro tracce in cassetta", raccontano La Casbah, "avevano il gusto dell'avventura e il suono dell'ambiente circostante. Registrammo gli strumenti in presa diretta nella nostro studio, la casa in campagna tra Comiso e Vittoria di Valeria, la nostra batterista dell'epoca, negli stessi giorni della strage di mafia di San Basilio. Sulla nostra testa ronzavano indolenti gli elicotteri".

A funzionare, però, almeno all'inizio, è solo il nome. Infatti, il primo nucleo della band durò poco: i componenti spingevano in una direzione diversa, e non era facile trovare punti d'incontro fra chi era figlio della new wave e incuriosito dal folk, come Vincent Migliorisi, e chi era uno smanettone di effetti, come il futuro prolifico chitarrista Stefano Meli.

Bassisti e batteristi, come nella migliore tradizione, vanno e vengono. Trattìno d'unione: il cantante Giambattista Rosso che, oltre a scrivere i testi, suggerisce il nome per la band: La Casbah, intesa come sintesi di immagini, suoni, luoghi e persone che caratterizzeranno lil loro progetto musicale, nel segno dell'amore per il gruppo e la mentalità di Joe Strummer.

Dopo vari cambi si raggiunge la formazione "classica" che prevede l'aggiunta di Carlo Natoli alla chitarra – futuro Gentless 3 ed Erri – e una drum-machine che troverà un giusto tiro dal vivo con Ugo Russo.

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È con questa formazione, dettata un po' dalla sfiga e un po' dalle possibilità, e che fa molto "primo demo degli Almamegretta", che il gruppo registra per conto suo il loro debutto e vive il suo anno di grazia nell'underground non solo italiano.

L'album è posto al principiare di oltre trecento concerti in tutta la Penisola e in Europa in cui La Casbah si è effettivamente vista circolare nel mondo, ha fatto un sacco di strada – anche proprio nel senso di caselli autostradali –, raggiunto un sacco di mete, visto bellissimi paesaggi: "Di ritorno dal nostro primo giro di concerti francesi, nel ’96, facemmo un doppio concerto: pomeriggio acustico e sera elettrico, in due province diverse della Sicilia orientale. Guidando fra i due set, avevamo a destra un tramonto elettrico sul mare, a sinistra un gigantesco incendio doloso che ci lambiva le ruote. Era la Sicilia fuori dagli itinerari turistici", ricorda la band ragusana.

Tra le mete spiccano, senza dubbio, quella in Francia di spalla a Mr. Linton Kwesi Johnson; quella a Roma nella cornice di Campo dei Fiori, in occasione dei 500 anni del rogo di Giordano Bruno e quella ancora più suggestiva alla Pagoda della Pace di Comiso, luogo sacro fortemente voluto dal monaco giapponese Gyosho Morishita proprio di fronte all’ex-base militare americana.

La Casbah al CSOA Babilonia (Lecce 2001)
La Casbah al CSOA Babilonia (Lecce 2001)

Con l'aggiunta di Muf, al secolo Fulvio Bufardeci, nella veste di mangiafuoco e giocoliere, tra mascheroni, fez, turbanti e kaftani, i La Casbah restano sicuramente uno dei live-act più personali e quindi memorabili di quegli anni. Senza nulla da invidiare ai maestri del genere quali i parigini Les Négresses Vertes o ai contemporanei italici ben più ammanicati come gli Aprés La Classe – con i quali in seguito collaboreranno – o paraculi, come i Radici nel Cemento.

Sputare petrolio infuocato e’ cosa da poco se in nome di dio i figli di Tito si scannano ancora. Ed ancora e ancora un’ altra omelia e tattiche vecchie da pulpiti inquinan le nostre coscienze, bestemmie. Bande armate a Belgrado sparano.

(da Lungo Le Scale - La Casbah, 1999)

Non urlano i La Casbah e, nonostante i trascorsi punk di Giambattista, non cedono alla facile retorica dello slogan nè non sbattono i piedi per farsi fintamente più grandi. Più semplicemente raccontano in musica la vera via dell'anarchia, della Rivoluzione – con la giusta maiuscola del caso.

L'idioma dialettale e la strumentazione etnica fatta di mandolini balcanici, la tradizione sicula e i miraggi nordafricani, non si palesano come limiti, ma valori aggiunti di un linguaggio che riesce ad essere trasversale – per non dire universale – e che, prim'ancora di realizzarsi attraverso i massimi sistemi e le barricate, vive e si sviluppa dentro di noi.

Così, Malatu d’Amuri, forse il loro brano più noto, diventa la soundtrack delle street parade bolognesi di quegli anni. Destino che tutt'ora capita a pochi. Per mezzo di un'attitudine interna, di gesti quotidiani, di una poesia intima che parla con forma ora dolente, ora energica, ora tenera, i La Casbah rappresentano appieno la progettualità di un'ultima generazione di ragazzi che non suonano tanto per suonare.

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Tra riverberi gitani, ombre raggamuffin e almamegrette, i La Casbah proseguiranno il loro viaggio in compagnia di nuovi e vecchi compagni fino al 2004,  per poi sciogliersi per le solite incompatibilità artistiche e caratteriali. Nel punto di massimo splendore la formazione conterà una decina di nomi, tra musicisti – tra cui il futuro Aretuska Jah Sazzah – e collaboratori – tra cui Toni Carbone del culto Denovo –.

Forse, un giorno avrò modo di approfondire anche questo interessante aspetto della storia. Ma la reunion sold-out di quest'estate, anticipazione di un futuro prossimo proseguo e di un EP in lavorazione mentre scrivo, però, mi ha permesso di riflettere pure su una cosa che credo importante e vorrei condividere: bisogna avere orecchie tese come radar per captare i mille fermenti che impercettibilmente, ma con salda tenacia modificano, giorno dopo giorno, le geografie sonore d'Italia.

Bisogna avere anche un cuore grande e curioso e un portafogli equo e generoso per cercare, ricercare e guardarsi in giro oltre il noto, il radiofonico e l'imboccato, scoprire gruppi e melodie per far sì che esistano, resistano e, magari, non scompaiano tra le piaghe del tempo e delle negligenze nostre.

Sempre se non si vuole rimanere il Paese che da sempre è troppo attento ad osservare il dito piuttosto che la Luna. È una – vostra – scelta, certo, ma noi continuiamo a preferire la Luna.

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L'articolo La Casbah, la fotografia di una generazione ormai perduta di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2020-09-09 13:30:00

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