C'mon tigre: nomadi a casa loro

Il nuovo album della band, "Habitat", è un viaggio che senza uscire di casa – come un'altra "tigre", Emilio Salgari – attraversa tre continenti e passa dalle canzoni popolari ecuadoriane a Fela Kuti, il Brasile e Giovani Truppi. Siamo stati a Bologna da loro e ci siamo fatti mostrare le diapositive

C'mon tigre – foto di Margherita Caprilli
C'mon tigre – foto di Margherita Caprilli

Questa storia inizia con un viaggio in Brasile e finisce in una stamperia nel centro di Bologna, con Giovanni Truppi che racconta la storia di Emilio Salgari. Chi? L'autore dei libri di Sandokan e del Corsaro Nero, forse il più famoso scrittore italiano di romanzi d'avventura. Uno che ha ambientato i suoi racconti dalla Siberia al Paraguay senza aver mai lasciato l'Italia. 

È un cammino che ci porta in tre continenti, verso una meta "che nessuno conosce davvero, ma che tutti abbiamo sognato", mi dicono i C'mon tigre. Oggi esce Habitatil loro quarto album, e la nostra mappa fino al Brasile e ritorno. È un itinerario disordinato, fatto di incontri con persone diversissime, di canzoni popolari ecuadoriane, di monologhi disturbanti durante una seduta psicanalitica e di ricerche minuziose per raggiungere il suono più sporco e sbagliato possibile. Ma prima devo raccontarvi come ho scoperto questo viaggio.

 
 
 
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I C'mon tigre hanno annunciato con questo post la presentazione di Habitat. Prima reazione: "Devo andarci". Già dai primi due singoli si capiva che il collettivo puntava a confermare il suo carattere apolide e giramondo. Solo nei due singoli – Teen Age KingdomThe Botanist – abbiamo incontrato Xênia França, cantante di San Paolo fresca di Latin Grammy 2023, l'erede dell'afrobeat Seun Kuti e Jules Guerin, il regista di Marsiglia che ha realizzato il video del secondo singolo.

Stazione. Treno. Bologna Centrale. Avanti veloce fino a Via Nazario Sauro. Sotto i portici inizio a camminare a tempo delle percussioni di The Botanist con passo felpato, come per evitare le piante di guaiava e i rami di zamia. Se chiudo gli occhi mi sembra di essere in Nigeria. Tra cori, marimba e fiati, la voce di Seun Kuti arriva come un terremoto. La terra trema e io continuo a muovermi tra le mangrovie del video, incontrando animali esotici e tirannosauri che suonano il sax. Il leader degli Egypt 80 mi ipnotizza, al punto che scordo di essere per strada. Non rifatelo a casa, e soprattutto fuori casa.

Stamperia vuota e tigre di Danijel Zezelj
Stamperia vuota e tigre di Danijel Zezelj

Partenza

Quando arrivo davanti alla stamperia ci sono solo i C'mon tigre. Dentro è deserto, quadri stesi ad asciugare, murales, tele alle pareti e una piccola scala in fondo alla stanza, basta. Di sotto non c'è musica e si riesce a parlare meglio. Hanno l'espressione di vecchi saggi, di quelli che hanno visto tutto. Stanno sugli sgabelli dello scantinato di una galleria d'arte come un monaco tibetano sta seduto per meditare. Parlano lentamente, si prendono tutto il tempo che gli serve per scegliere le frasi più evocative. Ora capisco l'intro del disco. Goodbye Reality è una melodia intricata e cinematografica, che ci invita ad abbandonarci all'ascolto. Più ci penso più mi sembrano rivoluzionari nell'era della velocità. Mi fanno vedere il video di Twist into any Shape – brano dello scorso album – diretto da Donato Sansone e le tigri di Danijel Zezelj fatte con i rulli da imbianchino. "C'mon tigre ha sempre avuto un baricentro spostato tra la musica e le arti visive", spiegano. "Presentare il nuovo disco in un posto che trasuda arte grafica ci divertiva, ce lo fa suonare in maniera differente". Ecco perché partiamo da qui.

Brasile

Dalla Stamperia Squadro, bellissima galleria d'arte che ci sta ospitando per l'ascolto in preview del disco, si vola subito in Sudamerica. "Il primo passaggio è dall'Europa e dall'Africa, su cui ci eravamo ispirati di più per i lavori precedenti, verso il Brasile", dicono. "È un posto che conosciamo poco e da fuori esterno ci crea un'assonanza molto forte col concetto di posto dove c'è vita". Cercano un posto che esplode di vita. Non quella caotica, la vitalità soffocante fatta di gente ammassata in un locale o in giro per strada. "Il Brasile è il posto ricco di vita per antonomasia. Se ci pensi la Foresta Amazzonica è uno degli habitat più rigogliosi al mondo". Mi mostrano la vita che sboccia in mezzo a una foresta, "in un posto caldo, umido, ricco di acqua, un posto che non c'è realmente". È come mettere una X sulla mappa senza sapere cosa ci sia, ma con la certezza che quello che cerchi non può essere altrove.

Giriamo il Brasile in lungo e in largo, e in un anfratto magico incontriamo Arto Lindsay, bestia sacra della musica brasiliana. Suona in Keep Watching me, un brano onirico che ci riporta in un mondo ancestrale. Ci sono percussioni e fiati con sprazzi cacofonici. Sembra di essere parte di un rito sciamanico. Un ritorno alle origini, l'opposto di Teen Age Kingdom. A San Paolo incontriamo Xênia França. La cantante ci insegna a smontare e riassemblare i ritmi e la musica tradizionale. Il tiro dei tempi latini si mescola con synth elettronici e una batteria free jazz. Qui si litiga con il ritorno alle origini, con lo spiritualismo. Qui si fa a botte con Dio, poi lo si cerca, poi lo abbandoniamo definitivamente. Mi fanno notare che nella copertina del singolo c'è una teen ager che vomita fiori in un bagno. "È un'immagine leggera, poetica e allo stesso tempo cruda, violenta". È l'immagine dell'adolescenza secondo i C'mon tigre.

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Ecuador

Affacciato sulla costa opposta c'è l'Ecuador. Arriviamo per spulciare tra le canzoni popolari che i nonni cantano ai nipotini e troviamo un brano reinterpretato fino allo sfinimento. Pare che Odiame sia stata scritta da Julio Jamarillo, o almeno che ne sia stato il più famoso interprete. È stato il cantante di bolero latino americano in Ecuador e questa è una delle sue canzoni più famose. Alle orecchie del resto del mondo questa canzone non dice nulla ma in Sudamerica è una canzone che tutti hanno almeno sentito una volta. La canzone-simbolo di un altrove lontano, noi non la conosciamo nemmeno. È questo che incuriosisce i C'mon tigre. Così per la prima volta in 10 anni registrano una cover. "Che poi forse è più un riarrangiamento". "Eravamo curiosi e volevamo sporcarci le mani con la musica tradizionale", dicono. "Doveva essere un gesto provocatorio, non avrebbe avuto senso approcciare una canzone popolare in un'altra maniera". La loro versione è sporca, elettronica, caotica, con una voce sintetizzata, una batteria fuori controllo e una poetica cupa che ammutolisce. Emozionare con la voce distorta non è da tutti.

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California

La vita sboccia ovunque. Anche dove non ti aspetti puoi trovare un po' di quella Foresta Amazzonica che i C'mon tigre si sono immaginati. "La California fa parte del mappamondo C'mon tigre. L'idea è la stessa". Così entriamo negli USA, il paese simbolo del consumismo e uno dei traini dell'economia mondiale. Non cozza? Secondo loro no. Per Sixty Four Season si sono affidati alla batteria di Danny Ray Barragan del collettivo Drumetrics, con cui i C'mon tigre collaborano dall'esordio. Il loro lavoro è una ricerca del suono sporco e iper saturo degli anni '60 e '70. "Ricreano un tipo di sensazione che non c'è più". Ne parlano come se questo stile di suonare la batteria fosse un tesoro delicato, da curare e mantenere.

Italia

Con Sento un morso dolce riattraversiamo l'Oceano e torniamo in Italia. L'ultima cosa che ci si aspetterebbe dai C'mon tigre. "Inserita in questo disco la canzone è una mosca bianca, è l'unico brano nervoso in un ambiente morbido e accogliente". Giovanni Truppi canta un testo nevrotico a cui rispondono i suoni folli di una danza tribale. Tamburi ed elettronica, poi fiati che sembrano fare il verso a degli elefanti. Ma siamo in Italia? No, è un flusso di coscienza delirante dentro la testa di Giovanni Truppi. "In tutti gli habitat c'è un elemento pungente, sarebbe stato strano se questa canzone non ci fosse stata". 

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Nigeria

L'ultima tappa è la patria di Seun Kuti. Lui e i C'mon tigre si sono conosciuto per caso nel backstage del Nova Festival a giugno, da allora hanno mantenuto i rapporti. Il frontman degli Egypt 80 canta e suona il sax in The Botanist. È un assolo sgangherato, graffiato come la voce del musicista nigeriano. Intorno l'aria è fanfarosa come i fiati che si accatastano sulla marimba e sulle percussioni. "Il gesto della chiusura del cerchio torna perché l'afrobeat è stata una delle matrici più influenti per noi". Dicono di sentirlo anche in Na Dança das Flores, canzone a metà tra le influenze sudamericane e africane. The Botanist è un brano crudo in mezzo a Habitat. Un brano così ritmato e caotico da spiccare in mezzo alle influenze latine e alla catarsi collettiva guidata da Giovanni Truppi. È la chiusura del viaggio.

Ritorno

La stamperia è piena di gente. Le persone si riversano nella strada, si accalcano all'ingresso per sentire il disco da una cassa fuori dalla porta mentre fumano. L'aria di festa promessa dal post su Instagram c'è, ma è una festa in famiglia. Tutti si conoscono, si abbracciano. Un bambino va in giro a ficcanasare mentre la madre lo insegue. La cosa strana è che non sembra fuori posto. Arriva Giovanni Truppi per parlare del disco. Anche lui – come me – pensa che la canzone simbolo del disco sia Nomad at Home, che col titolo dice già molto. "Se penso a Habitat mi viene in mente Emilio Salgari, l'autore di Sandokan, che ha girato il mondo senza uscire mai dall'Italia".

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L'articolo C'mon tigre: nomadi a casa loro di Martino Fiumi è apparso su Rockit.it il 2023-11-24 11:00:00

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