Come nasce una canzone

O meglio come nasce quella di Splendore, che si è trovato per tre settimane in una bellissima stanza della Casa degli Artisti di Milano con il "mandato" di produrre musica. Questi i consigli che si sente di condividere dopo l'esperienza, e che ci forniscono parole chiave decisamente inaspettate

Tutte le foto realizzate durante l'open studio di Splendore alla Casa degli Artisti di Milano
Tutte le foto realizzate durante l'open studio di Splendore alla Casa degli Artisti di Milano

La verità è che vorrei potervi dire come si scrive una canzone. Il segreto che c’è dietro a ogni foglio bianco che diventa armonia e melodia. E voi potreste anche dire “oh ma chi è sto qua che vuole insegnarcelo, chi lo conosce?” e avreste tutta la ragione del mondo. Ma ecco, sapessi questo segreto ve lo direi, senza remore, anche dall’anonimato. La condivisione della conoscenza, per me, resta ancora l’unico sviluppo della comunità artistica.

Ho cominciato a scrivere canzoni da adolescente, facendo rap, poi sono cresciuto e durante l’università ho girato l’Italia (e tre capitali europee – lo lascio qua sperando qualcuno lo scriva su Wikipedia) con una band indie-pop che si chiamava L’orso. Infine ho aperto un progetto di nome Splendore e co-fondato un collettivo chiamato Ivreatronic. E poi ho mollato tutto: etichetta, management, booking. E collettivo. L’unico mio EP post-L’orso è arrivato a fine 2020 e non pubblico un singolo da un secolo. Quindi forse non dovreste prendere nessun consiglio da me. Nonostante il silenzio discografico, però, in questi anni mi sto togliendo parecchie e inedite soddisfazioni artistiche.

Il mese appena trascorso sono stato il primo ospite di un ciclo di residenze artistiche presso Casa degli Artisti a Milano. Ho partecipato a una open call e sono stato selezionato. Mi è stato dato uno spazio per una ventina di giorni con l’impegno di lavorarci e restituire al pubblico quanto composto in un live aperto e gratuito, un open studio come lo chiamano loro. E quindi, sì, con una data pendente sul mio capo ho dovuto scrivere canzoni, e così ho fatto. Ne ho composte e arrangiate otto (in 24 giorni, lavorando, non male direi): prendo così questo piccolo spazio per raccontarvi come è andata, magari potrebbe esservi d’ispirazione. 

Sono arrivato a questa residenza dopo aver lavorato per un mese (di pari passo con il mio full-time job) a una performance teatrale. I primi giorni mi sono quindi trovato inevitabilmente a corto di idee, troppo spremuto da un (doppio) lavoro che mi aveva creativamente svuotato. Anche questo fa parte della vita del musicista: saper attendere e accettare i deserti creativi. Avendo solo tre settimane a disposizione il tempo per leggere libri, guardare video, ascoltare dischi per fare ricerche su determinati temi era piuttosto limitato. I primi giorni ho così montato il mio studio e provato a fare musica. I risultati sono stati fallimentari. Bene così, il fallimento è sempre parte del processo creativo.

Per idratare il deserto ho così cambiato approccio trasformando lo studio in un luogo di dialogo. Ho invitato amici, musicisti e altri colleghi residenti (seppur di differenti forme d’arte) e abbiamo semplicemente parlato, discusso, condiviso. Magari qualche ascolto, raramente qualche nota, principalmente conversato. Si parla poco – almeno nel mondo della musica – della condizione dell’arte, del privilegio di poterla fare (e di poterne parlare), della salute mentale in gioco e dei perché necessari per mettersi in discussione. E parlarne apertamente e intimamente con i miei ospiti, con il passare dei giorni, mi ha reidratato. 

Ho come l’impressione che i motori della musica siano principalmente due: i sentimenti (chi vuole li può chiamare anima o cuore) o il pensiero (che io preferisco definire progetto). Come artista ho iniziato attingendo dai primi sviluppando una - personalmente non sana – abitudine di dover vivere tutto come spogliato di ogni strato protettivo. Solo così, pensavo, avrei reso giustizia all’arte. Lentamente però ho inteso che la mia propensione alla creatività meglio si adeguava a lavorare sul progetto, piuttosto che sul sentimento crudo. Sarà l’età (iniziato a 17, ore ne ho 35), o gli anni di terapia, ma sono certo che la mia ritrovata pace con questa forma d’arte dipenda principalmente da questa scelta. E questo è primo e più importante consiglio che mi sento lasciarvi.

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Dicevamo, scrivere a partire dai sentimenti è una pressione costante e violenta a cui l’artista spesso decide di sottoporsi. È il modo più conosciuto e diffuso di fare musica (figlio di quell’idea un po’ rinascimentale e naive secondo cui l’artista debba soffrire per poter fare vera arte), nonché quello che incide con più forza sulla salute mentale dell’artista stesso. Cercare di spremere le proprie emozioni può portare a risultati straordinari, ma basta dare un occhio alle biografie di molti artisti per capire la posta in gioco di questa scelta. Progettare – e pensare –, invece, è tutt’altro tipo di impegno creativo. Più legato al mondo dell’arte e della performance, il progetto chiede all’artista un differente approccio intellettuale. Si parte da un’idea e su questa si lavora di ricerca per approfondire l’argomento. Qui è importante rimanere con la mente aperta, farsi condurre dalle diramazioni offerte della ricerca lasciandosi liberi di fallire. Il musicista così si avvicina alla figura dell’inventore – che prova, indaga, sbaglia, ritenta - piuttosto che a quella del pittore. 

Un progetto è un comune denominatore che trascina la creazione artistica dentro un preciso contenitore di regole. Scegliere come realizzare un disco (che sia una serie di singoli, un EP o un LP poco importa, ciò che legittima il progetto è costruire un body of work), magari con un solo strumento o con strumenti di un preciso momento storico, giusto per fare due esempi molto semplici, determina delle condizioni di partenza limitate. E scoprirete, facendo musica, che le limitazioni possono essere le vostre migliori alleate.

 

Ricercare soluzioni sonore e compositive in un determinato territorio è molto più "semplice" perché allontana una grande e comune problematica: la sindrome da iper-scelta, quella voglia di voler fare ogni genere di musica con ogni mezzo possibile che blocca o disperde l’arte di molti musicisti. Me in primis. Inoltre lavorare a un progetto permette studio, ricerca, approfondimento, garantendo a chi intraprende questa via un’esplorazione culturale e – di conseguenza – di sé più profonda della fuoriuscita non filtrata delle proprie emozioni.

I confini possono dunque venirci incontro perché – se usati con intelligenza – possono stimolarci a cercare soluzioni personali (e dunque uniche) all’interno di ambienti con possibilità ristrette. Ci permettono di agire in verticale piuttosto che in orizzontale (uno dei problemi di cui sta soffrendo l’industria musicale oggi), garantendoci un accesso a una nuova profondità. Anche solo un luogo specifico come lo studio di Casa degli Artisti con i suoi tappeti, il pianoforte a coda, le grandi finestre sul verde, diventa un confine se è lì dentro che devi portare un’esibizione (e per questo come progetto di residenza ho escluso le batterie cercando la ritmicità dei brani in altri elementi).

Certo, lì dentro si potrebbe fare anche del punk rock, tutto è legittimo, ma lasciarsi ispirare dai limiti anche fisici (la rifrazione del suono, l’intimità della location, gli strumenti a disposizione) può essere parte del progetto. Una volta ho preparato una lista di opposti (veloce/lento, futuro/presente, voce/strumentale, italiano/inglese ecc.) e tirato una moneta per scegliere quale parola tra le singole accoppiate avrei dovuto seguire per comporre nuova musica (l’idea arriva, a suo modo, da John Cage e l’I Ching). Ottenute le mie risposte ho iniziato a comporre musica con quelle regole, due mesi dopo avevo pronto un lavoro fedele a queste direttive, il mio EP ‘OMG’.

Progetti e regole. Forse niente grida creatività meno di queste due parole. Eppure possono esserne fondamenta e stimolo. In fondo la musica è architettura. E proprio come l’architettura funziona quando il progetto è solido. In un mondo di scelte infinite, di musiche scritte in ogni modo e da ogni geografia, liberare un po’ la discografia e le playlist dai nostri piagnistei (e sto facendo un mea culpa) a favore di una musica con un’idea e un progetto potrebbe giovare a rinfrescare un ambiente musicale stantio. Ora che l’underground è scomparso a favore di un mainstream ininterrotto (non c’è alternativa al mainstream, possiamo parafrasare così), la sopravvivenza è per pochi. Ma non scoraggiamoci, ora possiamo dedicarci a scriverci canzoni sforzandoci – almeno un minimo – di avere un vero motivo per farlo

Mattia Barro, in arte Splendore, è un artista, performer, producer e DJ ex membro fondatore del collettivo Ivreatronic con cui ha suonato in tutta Italia nelle migliori feste e nei più acclamati festival (MI AMI, Spring Attitude, Ortigia Sound System, Woodoo Fest, Siren). Con il suo primo EP, OMG, am I really feeling these feelings I’m feeling right now?, pubblicato nel 2019 via Ivreatronic, ha riscosso favori di critica in Italia e all’estero. Ha prodotto brani per Francesca Michielin, Cmqmartina e Plastica, remixato artisti come Cosmo, Capibara, Nava, Generic Animal, Club Domani. È stato scelto dal Primavera Sound Pro Festival di Barcellona del 2021 per esibirsi in un’esclusiva performance digitale.

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L'articolo Come nasce una canzone di Splendore è apparso su Rockit.it il 2023-11-08 00:37:00

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