Il Confusional Quartet, l'Italia avanti anni luce

Negli anni '80 Bologna era il luogo alternativo per eccellenza e da quel magma culturale è uscito fuori un quartetto strumentale tra no wave e avanguardia che continua ancora oggi a suonare. Con un nuovo disco in produzione, ci hanno raccontato la loro storia underground

Una foto vintage del Confusional Quartet
Una foto vintage del Confusional Quartet

1980. Bologna non era il buco del culo del mondo preconizzato, qualche anno più tardi, dagli Isola Posse All Stars, ma la capitale morale del rock indipendente italiano. Un brodo primordiale tra le cui melma si agitavano pazzi furiosi, musicisti maledetti, geni assoluti e avanguardisti incalliti. Difficile infilare tra una di queste categorie il Confusional Quartet.

Pazzi lo erano di certo, che fossero geni non si discute, maledetti forse no, avanguardisti poco ma sicuro. Ma loro, è altrettanto certo, avrebbero rifiutato di vedersi fagocitati nella strettoia di una etichetta, di una forzata collocazione. Il Confusional Quartet era sinonimo di libertà, di contaminazione, di energia, di sperimentazione. Che riversarono in un disco omonimo uscito proprio in quel 1980.

Un disco che, a quarantuno anni di distanza, è nuovamente disponibile grazie alla ristampa filologica voluta dalla Italian Records, che ha rispettato ogni dettaglio dell’edizione originale. Un album ristampato insieme ad altro raro materiale: la registrazione di un concerto registrato nel 1981 a Milano, con un set che dimostra quanto visionaria fosse la tensione creativa della band, e un 10 pollici da tempo introvabile, con la copertina impreziosita dai fiori del futurista Giacomo Balla, un omaggio a quella che il Confusioanl Quartet ha dichiarato essere una loro fonte di ispirazione: l’avanguardia del futurismo.

Tanto ben di dio per ricordare i tempi del Confusional Quartet, tempi che non sono finiti: la band bolognese sta per tornare con un tour e un nuovo disco. Ma ora è il momento di rievocare quel 1980 e un album caposaldo dell’underground tricolore. Ci è venuto in aiuto Marco Bertoni, tastierista della prima ora del Confusional Quartet, al quale abbiamo rivolto qualche domanda.   

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Qual è stata la genesi del Confusional Quartet?

Il Confusional Quartet nasce dalla voglia di suonare di quattro ragazzini. Avevo 15 anni quando ho visto in autobus un ragazzo con una chitarra elettrica, mi è bastato per conoscerlo e chiedergli di iniziare a suonare insieme. Era Enrico Serotti, poi abbiamo incontrato Lucio Ardito, che frequentava lo stesso liceo di Enrico, infine, a Modena, abbiamo conosciuto Gianni Cuoghi, il batterista, ora sostituito da Claudio Trotta.


La vostra ragione sociale, in partenza, era Confusional Jazz Rock Quartet…

Confusional Quartet era più sintetico e l’idea di etichettarci in un solo genere musicale ci parve riduttivo. Il termine Confusional funzionava per la nostra cosa.

Come è nato il vostro suono?

Ci piacevano gli Area, ci piacevano i Devo… il nostro set è sempre stato composto da una batteria acustica, un basso elettrico, tastiere (all’epoca un synth e un piano elettrico) e una chitarra elettrica con effetti.

Un suono che condensa parecchie influenze, jazz compreso…

Il nostro gruppo non ha mai avuto un cantante, ci piaceva suonare pezzi molto diversi tra loro affiancando repentinamente i più disparati generi musicali in totale libertà e velocità. Jazz, punk, elettronica, musica concreta, samba, polka…

Ecco… per quale motivo il vostro repertorio è formati da soli pezzi strumentali?

Perché, in fondo, non avevamo niente da dire e volevamo comunicare solo con l’uso che facevamo della musica, con la nostra musica. Inoltre, non abbiamo mai trovato nessun cantante in grado di star dentro al nostro mondo.

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Qual era il vostro minimo comune denominatore?

Probabilmente eravamo influenzati dall’aria che si respirava allora: era normale (anzi, obbligatorio se volevi farti notare) fare pezzi propri, inoltre ci piaceva sconvolgere e stupire. Il comune denominatore era l’energia che distingueva i nostri concerti e per questo siamo stati definiti da subito new wave o no wave.

Prima di pubblicare il disco, quale percorso avete seguito?

Non facevamo cover, a parte la sigla di un cartone giapponese (UFO Robot), suonavamo insieme solo da qualche mese e avevamo pochi pezzi, tutti quelli che avevamo sono finiti nel primo album. Tutti eccetto uno, Woytila Rock’n’Roll, l’unico nel quale c’era la voce (di Lucio), che in uno stacco urlava Se mi sbaglio corigeme!!! Non ricordo perché non lo registrammo.

Come siete riusciti a convincere la Italian Records a pubblicare il vostro album?

Dopo alcune serate al Punkreas (il primo club punk rock di Italia), una cantina nel centro di Bologna, fummo avvicinati dai ragazzi dell’allora Harpo’s Bazar (che poi prese il nome di Italian Records), ci chiesero se volevamo registrare una audiocassetta per loro. Poi il progetto crebbe e realizzammo quello che fu il primo LP.

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E i concerti?

All’epoca suonare per registrare in studio o suonare dal vivo era la stessa cosa, quindi suonavamo come si sente nel disco, ma probabilmente in modo più forsennato e nevrotico. Il live era il motivo per il quale ci piaceva suonare e fare pezzi. Abbiamo suonato in palchi come apertura agli Area, ai Gurvitz Army di Ginger Baker, alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, in tantissimi posti in tutta Italia e in Austria, dove ottenemmo un buon successo. Questa cosa è continuata e sta continuando anche ora, mi riferisco ad avere il piacere di andare in giro (per l’Europa) a suonare le nostre cose.

Il riscontro della critica fu positivo all’epoca dell’uscita del disco, il pubblico come rispose?

Sia la critica che il pubblico ci accolsero favorevolmente. Nonostante non facessimo canzoni e fossimo un progetto così “marziano”, suonammo in tantissimi concerti, in alcune occasioni in eventi che portavano tante migliaia di persone come pubblico.

Un vostro pezzo è diventato abbastanza noto, parlo di Volare, una cover stralunata e lisergica di Nel blu dipinto di blu

Fummo i primi a parlare di italianità, a usare la magia degli anni ’60, il tricolore, il futurismo, le grandi icone come Domenico Modugno. Ci piaceva molto quell’aspetto del nostro mondo e l’idea della cover di Nel blu dipinto di blu ci venne per omaggiare tutto ciò. Eravamo comunque molto ispirati dai futuristi e dai Devo, per cui la nostra versione del celebre brano di Domenico Modugno non poteva che essere una reinvenzione nel nostro mondo di plastica colorata stile Fiorucci di una famosissima melodia, che solo nel refrain finale viene citata in modo dissonante e come se fosse un disco che si inceppa. Se non fosse stata una cover non avremmo mai composto quel brano. La nostra Volare era suonata nei juke-box e fu notata da Mara Maionchi, questo interesse fruttò il primo contratto editoriale con la Italian Records.

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Com’era Bologna in quegli anni? E com’era suonare a Bologna?

Bologna era piena di giovani, era la città dell’ala creativa del movimento degli studenti, della giunta rossa dove gli autobus erano gratis, dove vivevano persone che crearono un forte legame con esponenti dell’arte musicale pittorica e fashion di New York. Era normale (per incontrarsi) trovarsi tutti (tutti i ragazzi di Bologna) alle 9,30 di sera in Piazza Maggiore. Ci si incontrava e si andava a sentire dei concerti. Noi abbiamo iniziato a suonare per questo. Da adolescenti uscivamo di casa e potevamo assistere (gratuitamente) a spettacoli di alto livello, mi vengono in mente il Living Teather, Enrico Rava, Carmelo Bene, Frederic Rzewski, Karlheinz Stockhausen, i Clash. Per noi c’erano abbastanza occasioni per suonare ed era apprezzato il gruppo che faceva cose sue: la musica era una cosa che creava molta aggregazione.

Hai dei ricordi di Bologna Rock, il Festival organizzato dalla Harpo’s Bazaar che si tenne il 2 aprile 1979 al palasport di Bologna?

Per l’evento Bologna Rock ricordo che pensammo di dover fare qualcosa per distinguerci. Ci piacevano tute gialle di carta dei Devo e andammo al mercato della Piazzola a comprare delle tute bianche da imbianchino da indossare per la serata, tute che poi tenemmo per un periodo, per poi sostituirle con maglie rigate a colori di Kenzo. Salimmo sul palco e ci venne naturale suonare con molta energia senza parlare né presentare i pezzi. Alla fine fummo salutati da una ovazione.

E del tour con Lydia Lunch?

L’anno dopo, nel 1980, partecipammo con il gruppo di Lydia Lunch, gli 8 Eyed Spy, alla Quarta settimana della performance di Bologna, a cui seguì un breve tour che ci vide dividere il palco con loro. Un ricordo molto bello, ci siamo divertiti veramente molto sia durante i concerti sia dopo. Loro erano un manipolo di Newyorkesi massimi esponenti della no wave e noi i Confusional Quartet. Abbiamo passato tante notti in bianco in giro per l’Italia, ricordo che loro erano veramente molto meravigliati delle libertà che avevamo noi giovani italiani rispetto agli USA del 1980.

Dopo l’album, avete pubblicato un maxi-single con la copertina del futurista Giacomo Balla. Un omaggio alle avanguardie, suppongo.

Sì, un 10 pollici intitolato Confusional Quartet. Il lato B vede solo un pezzo (Sigla) suonato e prodotto in varie e diverse modalità, una melodia “banale” che si rifaceva all’idea di “oggetto banale” dell’architetto Alessandro Mendini. I fiori di Balla in copertina sono ovviamente un omaggio a un artista futurista che amavamo, ma anche una perfetta sintonia di forme di colori e una sintesi di ricostruzione dell’universo futurista a cui sentivamo di dovere tanto in termini di vicinanza artistica.

Una nuova edizione del vostro primo album e il 10 pollici di cui sopra, con l’aggiunta di un live, escono sotto l’egida della nuova Italian Records. Avete partecipato ai lavori di masterizzazione?

Della masterizzazione si sono occupati i ragazzi dell’etichetta. Abbiamo sentito che sono stati fedeli ai bei suoni prodotti all’epoca dal nostro amico e super ingegnere del suono Gianni Gitti.

Che effetto ti ha fatto riascoltare Confusional Quartet?

Per intero non lo ascoltavo dalla sua prima ristampa in CD ad opera dell'etichetta di Ivrea Elica, guidata dal bravo Andrea Cernotto. Quindi da molti anni non ricordo quanti, forse 15. Di recente ho riascoltato i brani provati per la scaletta dei concerti che abbiamo fatto a Parigi (Nedbo Zip, Pensione Elsatica, Volare) L’effetto che mi ha fatto è stato il rinnovato godimento per i suoni che ha tirato fuori Gianni Gitti.

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Nel live vi si sente suonare una polka: cos’era, una provocazione?

Assolutamente no, anzi, assolutamente sì. Come ti dicevo prima, per noi era bello cercare di sconvolgere e provocare gli ascoltatori ed era normale andare velocemente da un genere musicale all’altro. Adesso sembra un po’ strano, ma all’epoca parlare di futuristi o suonare un pezzo di liscio erano cose assolutamente non appropriate e in linea con le mode del momento, anche con le mode alternative o culturali del nostro ambiente.

C’è stato anche il tempo per una reunion, un termine riduttivo peraltro…

Più che reunion, è stato un riprendere a fare cose che avevamo lasciato dormire per qualche tempo. In occasione dell’uscita di Made in Italy 1978-1982, una ristampa antologica del nostro repertorio, ci siamo ritrovati nel 2010. È stato divertente ed è venuto spontaneo tornare a suonare ancora insieme. Le primissime note suonate in quell’occasione sono finite nell’album Italia Calibro X, seguito poi da Confusional Quartet, un LP mixato da Giulio Favero con un pezzo scritto e prodotto insieme a Bloody Beetroots, poi abbiamo fatto Confusional Quartet play Demetrio Stratos, dove suoniamo insieme alla voce di Demetrio Stratos grazie ad un nastro che, nel 1979, Gianni Gitti registrò durante l’ultima performance del cantante degli Area (Gitti era il suo fonico). Abbiamo anche ricominciato a suonare e gli ultimi concerti a Parigi sono stati un bel successo. Nel frattempo Claudio Trotta ha sostituito Gianni Cuoghi alla batteria, siamo al lavoro per registrare il prossimo album e stiamo preparando un tour per il 2022 che ci vedrà in giro in Europa e in Giappone. Visto che stiamo facendo più cose in questa seconda fase che da ragazzi, più che una reunion ci piace pensarla come una ripresa.

Avresti mai pensato che a più di quarant’anni di distanza qualcuno si sarebbe interessato alla ristampa del vostro album?

La percezione che abbiamo di noi stessi è data dalla sensazione di essere sempre stati fuori dagli schemi e di fare le cose in grande libertà espressiva. Per questi motivi, penso che sia lecito pensare al Confusional Quartet come a una band che ha lasciato un segno nella storia della musica giovanile italiana. Quindi no, non lo avrei mai pensato perché siamo sempre stati abituati a pensare al seguente progetto e a non soffermarci sulle cose che abbiamo fatto, ma non ne sono affatto meravigliato e ne sono felice. Stiamo pensando di mettere nella scaletta dei prossimi concerti alcuni brani del 1979: funzionano ancora benissimo.

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L'articolo Il Confusional Quartet, l'Italia avanti anni luce di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2021-09-09 09:10:00

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