Il curioso caso di Johan Röhr ci ricorda che lo streaming si può battere

In Svezia un compositore di "musica rilassante" ha fatto più stream di Michael Jackson, pubblicando i suoi album sotto 650 pseudonimi diversi. È quindi la quantità il segreto per fregare il mercato discografico? La nostra analisi su un fenomeno parecchio destabilizzante

È uscito l'annuale report di Spotify che spiega in maniera trasparente come i soldi vengono distribuiti ad autori e artisti. Non è la prima volta che la società svedese sceglie di raccontare al pubblico come funziona il sistema economico alla base dello streaming musicale, date anche le criticità da parte di artisti e professionisti del settore sul fatto che questo modello non retribuisca in modo corretto la produzione di musica e non tuteli a sufficienza il lavoro creativo. È necessario chiarire inoltre che Spotify non paga direttamente direttamente gli artisti, ma i detentori dei diritti della loro musica: tipicamente sono le etichette, i distributori, le società di collecting, gli aggregatori di musica.

Sempre stando al report, si può notare come per la prima volta nella sua storia, gli artisti indipendenti rappresentino la metà degli incassi della discografia mondiale. Rispetto a 5 anni fa poi, è giusto raccontare come la cifra pagata da Spotify all'industria musicale sia triplicata e abbia fatto lievitare di 4/5 volte l'incasso del 50% degli artisti che già guadagnavano almeno 10.000 euro dal servizio streaming. Un dato importante, che va sempre di più nella direzione meritocratica del sistema, d'altronde non è un caso che l'espressione più utilizzata durante la presentazione di questo report sia "democratizzare il settore". Vi abbiamo raccontato tempo fa come sia cambiato il modo di pagare gli artisti, infatti sono a una certa soglia di streaming non verrà percepito alcun compenso. È giusto dire che la soglia è di 1000 stream per singolo brano, non una cifra irraggiungibile e quindi, prima di prendere i fucili e fare la rivoluzione ricordiamo anche che tutto ciò è stato fatto per contrastare le canzoni denominate di "rumore bianco" ovvero quei brani creati casualmente da suoni e spesso generati con AI pubblicati solo per guadagnare qualche click e contaminare l'algoritmo.

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Io non c'ho mai capito un cazzo dell'algoritmo, nel senso che negli anni ho sentito una marea di professionisti spiegarmi un sacco di teorie che alla fine si sono rivelate sbagliate oppure andavano nella direzione delle playlist a pagamento. Ovvero playlist che hanno un numero di follower attivi che però non sono reali in carne ed ossa, quindi macinano ascolti con una conversione del 100% in maniera molto strana. Negli ultimi giorni in Svezia si è interrogati molto sulla figura di Johan Röhr, compositore "segreto" capace di creare circa 650 pseudonimi diversi, con relativi contratti differenziati e pubblicare circa 2700 brani per un totale di 15 miliardi di stream, riuscendo a superare così persino Michael Jackson. La sua? Musica strumentale per rilassarsi, un genere che viene ascoltato da milioni di persone e che ha delle sue playlist editoriali ben curate dalla piattaforma svedese. Una storia interessante commentata da Spotify con entusiasmo, dichiarando "che è splendido vedere sempre di più crescere questo genere musicale in ascesa" e aggiungendo anche "nessuno vieta a un artista, o a un gruppo di fare musica con il proprio nome o sotto vari pseudonimi".

Ai continui dubbi provocati da questo processo creato per rendere la musica a portata di tutti in maniera sempre più orizzontale e democratico, il caso del compositore svedese ci fa riflettere su come la bulimia di contenuti in cui viviamo è difficile da fermare. Pubblicare canzoni e farlo in modo sistematico sembra l'unico modo a disposizione degli artisti per crearsi un piccolo spazio tra gli ascolti delle persone, arrivando così a una progressiva perdita di originalità a fronte di uno standard produttivo sempre più simile. Se un prodotto funziona è giusto continuare a replicarlo direte giustamente voi, ma solitamente questo discorso funziona per chi un pubblico già ce l'ha e non è detto che seguendo sempre questa formula possa conservarselo. Tornare a parlare di musica e ascoltare i dischi è una soluzione per cercare di scappare da questo dibattito tossico, iniziare a scrivere delle canzoni se si ha qualcosa da dire (o far sentire) anche. Potremmo partire proprio da questo, cercando di porci domande e permettendoci il giusto tempo per ascoltare musica, nel modo giusto. Forse anche dalla qualità del proprio ascolto può cambiare la percezione di tutte queste informazioni?

Creare in serie canzoni però, diventa l'unico modo per battere i servizi in streaming, proprio come riprodurre sempre lo stesso articolo dove si dice che qualcosa in questo sistema non va proprio bene. Di questo avremo risposte in futuro, nel frattempo ognuno proverà a proseguire il proprio cammino.

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L'articolo Il curioso caso di Johan Röhr ci ricorda che lo streaming si può battere di Teo Filippo Cremonini è apparso su Rockit.it il 2024-03-20 15:47:00

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