Dead Horses, come se Gabriella Ferri cantasse nei Velvet Underground

Il trio ferrarese potrebbe essere uno dei casi underground più interessanti dell'inverno: tra Piero Ciampi e i Velvet Underground, con il secondo album "Sunny Days" la musica si fa ancora più psichedelica e arriva fino alle viscere

I Dead Horses
I Dead Horses
14/11/2022 - 11:27 Scritto da giorgiomoltisanti

Sono sopravvissuto anche a questo. Una decina di anni fa, nel periodo in concomitanza con l'entrata in scena degli australiani King Gizzard And The Lizard Wizard, ci fu un tempo in cui tutto diventò psichedelico. Gruppi di ogni stile e provenienza storico-geografica iniziarono a essere detti tali, per via di quell'imperitura legge secondo cui (per alcuni personaggi “avanti”) è l'etichetta che ti si può appiccicare o meno a fare della tua musica un prodotto interessante - non la musica in sé.

Fu così che in una paio di mesi dagli inglesi Toy, agli americani Wavves, all'islandese Olof Arnalds agli ensemble congolesi come i Konono N° 1 (in Italia mi ricordo la Fuzz Orchestra...), tutti diventarono “psichedelici”. Così: de botto, senza senso. Citando. Se fossimo nel 2012, probabile che Sunny Days, il nuovo disco dei Dead Horses (2022, Maple Death) sarebbe bollato allo stesso modo. Basterebbe l'iniziale Can't Talk, Can't Sleep per entrare nel club allargato dei furono fan di 13th Floor Elevator. Invece sentendo le canzoni contenute in questo secondo album, se si conta Ballad For Losers uscito in cassetta e vinile nel 2017 come un debutto, limitare i ferraresi in un solo contesto sarebbe quasi delittuoso.

Perché, geniali o confusionari, arditi esploratori della psiche o maldestri apprendisti stregoni del rock più visionario e volatile, i Dead Horses potrebbero essere considerati uno dei casi underground più interessanti dell'inverno. Ci sono solo tre cose che i Dead Horses sembrano amare senza alcuna riserve: il post-punk, il country-punk e il noise-rock. Beh, potranno sembrare comuni a molti gruppi, anche se di questi tempi è già molto potere impegnare sentimenti e attenzioni su un fronte così ampio di passioni non propriamente mainstream, ma c'è dell'altro. Naturalmente potranno attendersi di vedere corrisposto tanto incondizionato affetto dagli estimatori del primo genere e quelli del secondo e del terzo, ma sull'odierna banalità di tali etichette supplisce abbondantemente l'estro che va a colpire tanto alla ronzante abitudinarietà del post-punk quanto alla muta e alla immane imperturbabilità del country-punk e alla vaghezza dottrinale del noise rock. In che senso?

Ecco il commento rilasciato da un noto cantautore siciliano durante l'ascolto in macchina andando a Torino per sentire i Dream Syndacate: “Sono un flash spazio temporale, è come se Gabriella Ferri cantasse nei Gun Club!”. E anche se nel comunicato stampa si sommano Piero Ciampi e Velvet Underground, siamo lì. Questi, dunque, sono i risultati prodotti dal loro mondo e da ciò che sembra essere il loro primo imperativo dovere verso tutta la musica che hanno ascoltato e amato: proteggerla e diffonderla.

E soprattutto del loro modo d'intendere la stessa funzione del gruppo nel presente che ci ospita: “Ovviamente nessuna”. O come  disse Claudio Sorge del primissimo EP (Dead Horses, Bubca Records) nel 2014: “Dovevano esserci nel 1981 e allora ce l'avrebbero fatta”. Non so voi, ma finché ci sarà gente così, con questo grado di libertà o, se preferite, di capacità di potersene sbattere, io dormirò meglio.

Di Agnese Scarpa, Mauro Fogli e Michele Da Re ci sono poche chiare info. Si conoscono, per certo, le varie malefatte a nome Larsen, culto totale amato anche da gente del calibro di Jamie Stewart e Michael Gira, e poi a  nome For Food - cercate l'Ep Snow dello scorso anno, la cui grafica rimanda ai Butthole Surfers. Soltanto di Michele c'è un progetto solista a nome Zufux ma per il resto sempre in tre. “Tempo fa - mi dice in un breve scambio di messaggi - era normale suonare con i propri amici e nascevano e scomparivano gruppi di continuo. Noi siamo legati da sempre ed è stato naturale iniziare a suonare insieme, fino ad arrivare ai For Food e poi ai Dead Horses”. Il titolo del disco (“Non ci ricordiamo il perché, ma ci faceva ridere”) è in forte contrasto con i titoli delle canzoni, il primo si potrebbe dire positivo e luminoso, mentre le seconde sembrano più oscure (The Cross) e inquiete (Disappear).

 

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Come primo singolo invece la scelta è ricaduta su Macabro, canzone del mattatoio con un testo in italiano che sembra volere unire certi acri stornelli romani (o il dark-cabaret dei Roma Amor) ai losangelini X di Exene Cervenka. “E' un pezzo nato con i For Food. Lo abbiamo semplicemente ripreso perché non avevamo mai fatto niente del genere e ci piaceva”. Nulla di più e nulla di meno. Ecco, per chi scrive sembra che Sunny Days abbia messo a macerare, bollire e cuocere insieme un tale incredibile coacervo di suggestioni, umori, veleni e blandizie musicali da generare lo stupore, il colpo fulmineo e l'amore incondizionato nell'ascoltatore.

La sua stessa articolazione, in una fantastica coabitazione di melodia e noise, ha a tratti una faccia spaziale e un'altra decisamente terrena e grungy, mischiata ad accenni folkloristici e altri punk-blues, come se non ci fosse una vera disciplina e organizzazione ma al contempo comprendesse tutta una serie di generi prodotti negli anni come umori più che vere citazioni. “No, nessuna intenzione. Non ci piace ripeterci. I pezzi vengono da idee di tutti e tre, e li proviamo finché non hanno qualcosa di diverso dal resto ma in cui possiamo riconoscerci”. Per il momento, dunque, i miei sogni sono ancora salvi.

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L'articolo Dead Horses, come se Gabriella Ferri cantasse nei Velvet Underground di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2022-11-14 11:27:00

Tag: album

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