Fanculo il maxi evento, vogliamo il biliardino

Cronaca della nostra serata al KAD Fall Fest di Soliera, a due passi dalla via Emilia, alla ricerca di quei posti dove la musica dal vivo suona ancora senza accrediti né drink omaggio.

Devo dire che ho iniziato a fare pace con questa terra solo in età adulta, perché prima non mi aveva mai suscitato alcuna sensazione. Penso alla via Emilia e sento suonare Ligabue. Già, Ligabue. Lo dico con estrema sincerità: a me Ligabue faceva cagare. E oltre a tutto il mondo di cose socialmente accettate in questa bolla, se penso alla via Emilia, a questa parte di terra, penso a lui. Alle sue canzoni, che nell’adolescenza più ruvida usavo come metro di giudizio: classificavo le persone in base al fatto che lo ascoltassero o meno. E sì, quelle persone mi stavano sui coglioni.

Poi l’adolescenza finisce, impari a mettere insieme quattro pensieri e a portare avanti battaglie nauseanti per affacciarti al mondo del lavoro. Passa un po’ di tempo e, per qualche soldo, scegli di cambiare idea su molte cose della vita. Allora capisci che, in fondo, i tempi degli integralismi erano bei tempi inutili, e inizi a goderti il tuo nuovo status: persona che si è venduta per qualche accredito, un paio di drink e qualche stretta di mano, ma con lo storico di chi ha vissuto in modo verticale l’industria musicale.

A 33 anni sei, in sostanza, una persona fatta e finita. Amico dei rapper che ti mettono like sui social, confidente dell’etichetta che un tempo faceva musica alternativa e ora fa pop, invitato nelle case discografiche ad ascoltare i progetti in anteprima. Sei un po’ di qua e un po’ di là. Però, su questa cosa almeno, sei risolto: non hai più bisogno di chiedere il permesso a nessuno.

Succede che si va in Emilia, dove la notte arriva subito: è una sua particolarità. Qui non è che a un certo punto le giornate si allunghino, o meglio, non si ha mai questa impressione. Quando cala la sera, cala la notte. E si attraversano questi luoghi. Luoghi di grande lavoro e sacrificio, dove c’è, tutto sommato, una spina dorsale solida del Paese. Gli emiliani sono persone cortesi: l’accoglienza e l’apertura delle comunità sono la base della civiltà in questa porzione di terra. Ma gli emiliani sono anche molto solidi, meticolosi; sanno essere di lotta, certo, ma anche di governo.

Esco a Campogalliano, verso quella parte di Emilia che, se vai sempre dritto, arrivi davvero a Berlino. Qualche capannone di piccole e medie imprese, rotonde illuminate, deserte ma funzionali per evitare le stragi del sabato sera. Arrivo così a Soliera, precisamente al circolo Arci Dude.

Ora, l’immaginario dei circoli Arci in qualunque parte d’Italia è sempre lo stesso: tavoli di legno, un palco, birre alla spina e qualche oste arrabbiato con la vita che ti serve da mangiare qualcosa di dignitoso. A Soliera, invece, l’Arci Dude è un luogo polifunzionale: aperto alle attività delle persone adulte, ma anche alla comunità nei pomeriggi. Ha una sala concerti molto bella, ben illuminata, con un balcone che ricorda più certi locali di Portland degli anni ’90, in cui si muoveva l’alternative rock mondiale, piuttosto che un locale Arci in provincia di Modena.

Enrico è la persona che mi accompagna durante la serata. Mi spiega, per filo e per segno, che qui le cose vogliono farle andare davvero: chi sta dietro a questo spazio è volontario, salvo un paio di figure più istituzionali. Enrico ha l’entusiasmo di chi ha vissuto per un periodo a Milano, frequentando tutto ciò che lì bisogna frequentare per sentirsi parte di un giro, ma senza mai dimenticare di tornare a casa nei weekend: per il Modena Calcio e per restituire qualcosa alla terra in cui è cresciuto.

È difficile crederlo, ma la questione degli spazi culturali in Italia è fondamentale. Non si può centralizzare la cultura in pochi centri abitati e in luoghi apprezzati dalle amministrazioni solo perché “tenuti bene” e buoni per organizzare grandi manifestazioni: spazi del genere rischiano di morire di bandi. Restare indipendenti e portare avanti un circolo come questo non è solo una sfida affascinante, ma quasi una missione impossibile, soprattutto se sei a 25 km dalla città più grande.

Dopo la pandemia ci siamo concentrati molto di più sul come far sopravvivere un sistema che ci stava portando all’esaurimento nervoso, invece di ricordarci che la cosa buona di quel periodo – fatto di tour sold out e nevrosi da concerti infiniti – era che le persone erano tornate a riempire i luoghi in cui accadeva qualcosa, senza cercare necessariamente grandi aspirazioni. Insomma, i luoghi dell’intrattenimento e del divertimento erano di nuovo partecipati, ma ci siamo scordati di tutelarli.

Per fortuna, però, l’Arci Dude è sostenuto dal Comune di Soliera, altrimenti sarebbe già tutto finito, mi dice Enrico. E poi c’è questa voglia matta di rock. O meglio: questa voglia matta di ascoltare qualcosa di nuovo, senza dover trattare con le grandi agenzie di concerti per risparmiare 200 euro di cena, che in posti come questo fanno tutta la differenza del mondo.

E mentre scelgo, con una sorta di spiritualità, di mettere in pausa la dieta per concentrarmi sulla pasta al ragù offerta dai volontari, Enrico mi racconta che attorno a questo spazio lavorano diverse realtà. Tra queste c’è Arti Vive, il festival che ogni luglio anima il centro storico di Soliera con musica, teatro e performance artistiche. Nato nel 2007, è cresciuto portando in città artisti internazionali e dando spazio ai giovani talenti regionali, che qui trovano l’occasione di esibirsi davanti a un pubblico ampio e variegato. È nato dall’iniziativa dei giovani e delle associazioni locali e vive grazie all’impegno di decine di volontari, coinvolti in ogni fase dell’organizzazione.

E poi c’è la serata di oggi: una sorta di festival d’inizio anno, con vari gruppi a ingresso gratuito, che richiama centinaia di persone. C’è chi passa per un saluto, chi per ascoltare, chi semplicemente per supportare la causa. Ci sono famiglie con bambini, giovani incuriositi dai concerti, qualcuno venuto solo per una piadina e una birra in compagnia.

Scorgo sul palco PRIMgià CBCR Rockit 2025 – che canta una cover di un brano di Nada. Lo affronta con una spiritualità tale che, per un attimo, quasi credo davvero che per fare musica bastino una voce, una chitarra e poche cose semplici. Poi mi ricordo che per accendere quella luce nei pensieri serve anche talento. E in fondo, mentre tutti cercano il modo di sparare un progetto musicale nella stratosfera, ti accorgi che a volte basta tacere e ascoltare. Non serve molto altro. Con pochi elementi e i suoi brani, PRIM chiude il set nello spazio allestito per l’occasione, prima di lasciare posto al palco principale.

È il turno dei Rude Cinno, band della bassa bolognese e inventori della wave “rusco roll”. Si presentano con l’ironia di chi dichiara che se li trovate in fila al bagno è solo perché devono “cagare ripetutamente”. Sul palco portano un mix solido di post-punk e un lato dance che qui qualcuno definirebbe “maraglio”. Sono in tre (forse si vendono come un duo), con una ragazza che tiene in piedi tutto con metodo e sicurezza, mentre gli altri due sembrano rapiti dalla propria anima, come personaggi in un vecchio cartone animato anni ’90 con la palla da basket. Lei resta imperturbabile: suona, fa quello che c’è da fare. La vera star è probabilmente lei, ma la verità è che i tre insieme funzionano alla perfezione.

Parte il pogo, si scalda l’attesa per il dj set finale. Enrico mi guarda e mi chiede se andrò a qualche concerto rap nelle prossime settimane. La domanda, in realtà, ne porta con sé molte altre. Mi accorgo che solo qualche riga fa ho scritto che i Rude Cinno “funzionano”, e capisco che ogni tanto servirebbe fermarsi: perché tutto va troppo veloce. Forse bisognerebbe ripartire dai luoghi. Che sia una panchina di un parco dove fumare una sigaretta, i bastioni di Porta Venezia con un panino a fine serata, o qualsiasi altro posto che sentiamo nostro. Perché, in fondo, è nelle strade che si trovano le risposte ai pensieri che quest’industria ci mette in testa.

Con Enrico ci diamo appuntamento al 24 ottobre 2025, quando per qualcuno della community di RockitPRO ci sarà l’occasione di aprire il concerto di una band pazzesca che ha ridefinito il concetto di noise rock: gli OvO. Capisco subito che la sinergia con questi luoghi è l’unica benzina sana che, a breve, mi riporterà verso casa.

Parte il dj set. Mi dispiace non aver ascoltato Teo - membro della nostra community bellissima - che suonava troppo presto, forse quando il sole era ancora alto e io non ero abituato a chiamarla “Emilia”. Ma sono sicuro che ci rifaremo, con lui e con gli altri protagonisti della serata.

Sono venuto qui ricordandomi che Ligabue mi ha sempre fatto cagare fortissimo. Eppure, disco dopo disco, ricordo dopo ricordo, improvvisamente ci ho fatto pace. Scavando, cercando di capire, senza più giudicare. Perché sì, non è certo la prima cosa a cui pensi se lavori conoscendo la musica del territorio. Ma in fondo non è importante.

Non so se andrò a un concerto rap nelle prossime settimane, tra accrediti e drink offerti dagli uffici stampa. Quello che so è che, dopo oggi, non è più la cosa fondamentale. O meglio: il mio posto nel mondo esiste comunque. Anche con Ligabue in sottofondo.

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L'articolo Fanculo il maxi evento, vogliamo il biliardino di Teo Filippo Cremonini è apparso su Rockit.it il 2025-09-25 16:10:00

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