FIMI: "Gli artisti che riescono a guadagnare grazie allo streaming sono sempre di più"

Una conversazione con Enzo Mazza, alla guida dell'industria musicale italiana, che parla di remunerazione degli artisti in epoca digitale (al netto delle leggende metropolitane), del "potere dei cataloghi" e di musica live. E spiega una volta per tutti come funzionano i loro dischi d'oro

On stage
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17/04/2024 - 16:08 Scritto da Dario Falcini

Qualche tempo fa abbiamo pubblicato questo articolo, che faceva seguito alla diffusione di una serie di dati ufficiali sulla discografia italiana, in ascesa fortissima da ogni punto di vista o quasi. Numeri entusiasmanti e assolutamente incontestabili, nei cui confronti noi ci permettevamo di alzare il ditino. Perché i numeri sono fondamentali, ma non bisogna mai farsi ubriacare da essi. E perché, scrivevamo, i numeri vanno letti e capiti, contestualizzati.

I benefici dello streaming sono immensi, per gli artisti, per i fruitori e per una larga parte di addetti ai lavori. Quello che ci preoccupa è che il nuovo paradigma (che tanto nuovo ormai non è più), di per sè estremamente democratico, meritocratico e "liberatorio", non si trasformi in uno strumento di incremento delle diseguaglianze da un punto di vista economico e sociale. Non sarebbe la prima, né l'ultima "rivoluzione digitale" ad avere queste nefaste conseguenze.

Scrivevamo cose che ripetiamo da un pezzo, che infiliamo qua e là in ogni nostro contenuto come dei vecchi brontoloni. Eppure, a differenza di altre occasioni, qualcosa quel pezzo pare avere smosso. Ci hanno contattato delle radio per parlarne. Ci ha contattato la FIMI per darci il loro punto di vista. Abbiamo apprezzato molto. La FIMI, Federazione Industria Musicale Italiana, è la federazione che rappresenta migliaia di imprese che si occupano di produzione e distribuzione in ambito discografico. Per molti, da quando questo tipo di certificazioni sono diventati un ossessione sia per chi canta che per chi ascolta, sono quelli che "danno i dischi d'oro e di platino", ed è vero. Ma fanno molto di più. Promuovono iniziative di tutela per i loro associati, redigono report, si siedono ai tavoli istituzionali per discutere delle misure che interessano il mondo della musica e della discografia in particolare.

Insomma, il loro punto di vista in questa faccenda è centrale. Per questo abbiamo deciso di trasformare in un'intervista la chiacchierata che il Ceo della FIMI Enzo Mazza ci aveva proposto di fare. È quella che trovate qua sotto. 

Buongiorno Enzo, tu ritieni che l’attuale modello discografico funzioni bene?

Io parto da un dato. Spesso emergono dei dati secondo cui a causa dello streaming si sia ridotta la quota di ricavi che gli artisti sono in grado di generare rispetto ai dischi fisici, e di conseguenza il numero di artisti destinati a raggiungere numeriche significative. Le cifre, però, dicono che la quantità di artisti che grazie allo streaming ha superato l’equivalente di 10 mila cd venduti in Italia (che per gli streaming sono 10 milioni) è in netto aumento. Nel 2023 erano 793 album, nel 2012 solo 137 superavano la soglia. (Dato Gfk)

Come mai?

Anzitutto perché è cresciuto il numero di artisti che pubblicano musica. Prima c’erano numerose barriere all’ingresso: serviva una casa discografica, l’autoproduzione era difficilissima per costi di registrazione e distribuzione. Ora, grazie agli aggregatori, un self made artist può arrivare potenzialmente a milioni di persone. Quelli che ci riescono, testimoniano i report di Spotify e delle altre piattaforme, sono sempre di più. Inoltre in questi anni il sistema di remunerazione è cambiato. Oltre ai live ci sono i diritti connessi e le radio che pagano di più rispetto al passato. La percentuale di soldi che arrivano agli artisti è in costante aumento, più di quanto non aumentino i ricavi del settore (le royalties sono aumentate del 96% nel lasso di tempo in cui i ricavi maggiori del settore sono stati del 67% in più). 

Il punto è: quanti soldi “si mette in tasca” un artista con 10 milioni di streaming rispetto quanto accadeva quando vendeva 10mila cd?

Dipende dai contratti firmati. I famosi “0,01 euro a stream” o altre cifre di fantasia che circolano in rete non sono vere, appunto. C’è un calcolo, ritenuto attendibile, che dice quanto viene ripartito a tutta la filiera di ciascun abbonamento da 10 euro a una piattaforma: per artisti e autori, la parte creativa, la stima è di 2,18 euro. 

Ho provato più volte a stabilire una cifra, per lo meno indicativa, di quali siano le entrate di un artista, per tipologia di performance che fa sulle piattaforme. Mi sono arenato davanti al fatto che gli stessi artisti, e i loro staff, mi dicessero: è impossibile da calcolare, così su due piedi. È normale una simile mancanza di trasparenza, in un’epoca in cui con estrema facilità si possono ricavare, e “trasformare”, dati?

Le piattaforme non pagano l’artista, pagano la casa discografica che sulla base dei contratti ripartisce all’artista. Inoltre i contratti che legano artisti e case discografiche di solito sono basati sulle revenue generate, non sugli stream totalizzati. Poi ci sono i cosiddetti aggregatori, piattaforme tipo Tune Core, per intenderci, attraverso cui pubblicano molti artisti, spesso i già citati self made. Queste piattaforme rendicontano agli artisti i loro guadagni sulla base degli streaming accumulati, ma anche qui c’è la parte che si tiene l’aggregatore. Il meccanismo non è quello del pay per stream, è da qui che nasce l’equivoco. 

Cambiano molto tra di loro i contratti?

Sì. Com’è sempre stato. Un artista famoso può contrattare fino al 30% delle royalties, un emergente magari si deve accontentare del 10%. Quello che vediamo è che le case discografiche non danno più anticipi milionari, magari per 3 o 4 album, dell’era del cd. Gli investimenti sui progetti, però, ci sono ancora, spostati più sulle produzioni e sul marketing. Questo si somma alle royalties.

Di questo sistema, però, di recente si sono lamentati sia artisti grandi sia piccoli. Da Salmo e Trent Reznor o James Blake, a tanti emergenti come quelli che abbiamo coinvolto nel nostro progetto “Incompatibile con la felicità”. Cosa rispondi a loro?

Prima di tutto che dovrebbero provare a rimettere in discussione i propri contratti. Dalla vendita di dischi si è sempre guadagnato meno che dai live, anche nell’era d’oro della discografia. Sul lungo periodo, però, le royalties che arrivano dai cataloghi di certi artisti hanno risultati anche molto importanti. Oggi un artista che era al top dieci anni fa o vent'anni fa, che con lo streaming non fa le performance che può fare un artista forte in ambito urban, grazie al catalogo macina numeri notevoli, e lo si vede quando diamo dischi d’oro e dischi di platino ogni settimana. C’è sempre qualche disco di catalogo, vengono premiati album che nell’era del cd non erano arrivati alla certificazione.

Questa è la nostalgia che vince sempre?

Ci sono artisti che hanno dei cataloghi immensi, che la casa discografica riesce a sfruttare anche per altri usi, ad esempio la sigla di una serie tv o di un film. Che per altro a sua volta muove tutto il catalogo dell’artista. La partecipazione dei Ricchi e poveri a Sanremo li ha fatti conoscere a tanti giovani e ha fatto riscoprire altre canzoni del loro repertorio. Lo stesso per D’Angiò, per via della cover dei BNKR. Le case discografiche fanno sempre più spesso operazioni di frontline – vedi la Sony con gli AC/DC oggi o i 50 anni di Dark Side dei Pink Floyd, poi ci sono casi come il trionfo dei Queen dopo il biopic su Freddie Mercury –, molto utili per riportare nell’attualità band storiche. Lo streaming è dominato dai giovanissimi, che ascoltano i loro generi musicali di riferimento, e quindi è importante far scoprire loro artisti del passato, non dando per scontato che siano conosciuti solo perché solo dei nomi famosi o famosissimi. Le strategie – a volte le casualità – per muovere un catalogo sono molte. 

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Quando un artista dice “i soldi sono nei live” ha ragione?

Senz’altro. Anche perché dopo la pandemia il mercato è ripartito alla grande. Lo streaming è un mercato in crescita, ma un artista non può pensare di guadagnare solo dallo streaming. Il successo di un progetto musicale è un insieme di fattori. E ancora una volta i casi possono essere infiniti. Ci sono grandi artisti che riempiono gli stadi e non fanno numeri sensazionali sulle piattaforme, né per le nuove pubblicazioni né per il catalogo. Dall’altra parte ci sono artisti che fanno pochi live e sono fortissimi nello streaming (che a oggi è assolutamente dominato da alcuni generazioni): penso all’urban ma anche al k-pop o alla musica latina, fenomeni internazionali.  

Ci sono però tutta una serie di artisti, soprattutto quelli fuori dai generi che vanno per la maggiore, che dal sistema vigente paiono venire strangolati. E non aiuta il fatto che ci siano sempre meno posti per suonare, senza più vie di mezzo tra il baretto di provincia e il club da 3mila posti.

Questo è sicuramente un punto. Ed è uno degli aspetti che stiamo anche affrontando a livello istituzionale con il ministero della Cultura, attraverso il Codice dello spettacolo che dovrebbe essere pronto per agosto. Tra i temi che abbiamo sottolineato tutti, sia noi sia Assomusica e Assoconcerti o KeepOn Live, è che va aiutato chi fa musica. Mancano gli spazi medio-piccoli in tutta l’Italia (e non solo da noi: in Inghilterra, una culla della musica dal vivo, i locali live sono in crisi nera). Inoltre manca un sistema di semplificazioni – attenzione non parliamo di aiuti – che fa sì che sia più facile esibirsi dal vivo. Bisogna favorire le carriere, anziché ostacolarle. 

Siamo arrivati al punto che noi provavamo a sollevare con quel pezzo. Se lo streaming, per quanto in crescita, non garantisce di “camparci” e il live, dove ci sono i soldi, premia una fascia ridotta di artisti, c’è un rischio esclusione grande. E di disperdere un patrimonio prezioso.

Credo che il ministero stia finalmente ragionando di prevedere nel Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo, ndr) una serie di incentivi legati alla musica popolare, visto che fino a questo momento era stato sempre e solo legato alla musica colta e lirico-sinfonica. Ci sono misure che possono invertire la tendenza, o per lo meno aiutare. Il tax credit ha aiutato le case discografiche a investire sui giovani. E questo è fondamentale. Un tempo le major vendevano più o meno ovunque lo stesso repertorio internazionale, più alcune specificità locali, oggi devono investire molto sui talenti locali. Le etichette e gli altri player del settore vanno messi nelle condizioni di fare questo tipo di lavoro.

Morgan ha proposto di contingentare il numero di autori per i brani di Sanremo. Dubito si possa fare, dubito pure che abbia senso. Ma un rischio omologazione, per come è strutturata l’industria, oggi c’è?

Io quando sento parlare di limitazioni e affini, mi sento subito poco bene. È come quando si parla delle quote nazionali nelle radio, un dibattito che torna costantemente e che oggi è abbastanza fuori dal mondo, visto che la musica italiana è dominante entro i confini. I paletti o i limiti non servono, quello che piace funziona. Non c’è alternativa.

I dischi d’oro (e le varie certificazioni) stanno vivendo un momento di estrema visibilità e appeal. Sono nominati ovunque, rivendicati, sbandierati. Ti aspettavi che avrebbero avuto un simile momento di gloria?

Secondo me questa estrema visibilità delle certificazioni è legata a due fattori. Primo, dopo una lunga lotta durata anni FIMI è riuscita a imporre un meccanismo di certificazione ufficiale (i cui meccanismi sono totalmente trasparenti e pubblicati sul sito) che supera tutte le autocertificazioni e ha dato credibilità al sistema. Per fare questo cerchiamo di alzare sempre di più le soglie, anche se il mercato cresce talmente tanto che ci sono dischi con tutti i singoli certificati. E poi c’è l’adesione convinta data dal mondo Urban, i cui artisti lo usano di continuo per promuoversi e testimoniare i propri risultati. Da un lato siamo contenti, perché è una prova della bontà del sistema; dall’altro vogliamo che il valore della certificazione sia legata alla musica: se si produce solo in funzione di fare un disco di platino, diventa anzitutto uno stress per l’artista, e una cosa poco produttiva per tutti. 

I dischi che vediamo negli studi degli artisti o dei producer non li avete mandati voi, vero? Una volta un artista mi ha fatto vedere che il suo disco di platino era pubblicato sul retro di un cd di Carmen Consoli, se non ricordo male Uomini e topi

La FIMI rilascia solo la targhetta, un oggetto di metallo con l’ologramma e i dati del singolo o disco. Noi la consegniamo alla casa discografica, che poi può appenderlo alla parete, farci un monumento o quello che vuole lei. Non c’è uno standard come in Inghilterra, seguiamo piuttosto il modello americano. 

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L'articolo FIMI: "Gli artisti che riescono a guadagnare grazie allo streaming sono sempre di più" di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-04-17 16:08:00

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