Si chiama “Milano Sogna“ è un vodcast che racconta una storia fondamentale per la musica e la cultura di questa città e questo Paese, e pure per noi di Rockit. Perché racconta la storia del Jungle Sound, mitico studio di registrazione (e molto di più) di Via Pestalozzi 4, che ha ospitato la nostra redazione in anni fondamentali della sua crescita e che è stata la casa di una scena che era composta, tra gli altri, da band leggendarie come Ritmo Tribale, Casino Royale, La Crus, Bluvertigo e Afterhours.
Frontman e musicisti di queste e realtà amiche saranno anche i protagonisti, con i loro ricordi e punti di vista, del vodcast, le cui prime puntate si trovano sul tubo e che potete vedere qui. Tra gli intervistati, Manuel Agnelli, Morgan, Alioscia dei Casino Royale, Ferdinando Masi dei Bluebeaters, Omar Pedrini dei Timoria, Cesare Malfatti dei La Crus, Pino Scotto, David Moretti dei Karma, membri dei Ritmo Tribale e degli Scisma tra cui Paolo Benvegnù, oltre a chi all’epoca lavorava in radio e nella discografia.
“Milano Sogna” è nato da un’idea di Lorenzo Rocchi (Brand Storyteller & Creative Lead), Emanuele Concadoro (Co-Founder di Videozone Creative Production) e Fabrizio Rioda (fondatore dei Ritmo Tribale e del Jungle Sound Station). Fabrizio ci racconta com'è venuta l'idea e perché oggi "rievocare" JSS è più importante che mai.
Un vodcast: perché, come e quando avete preso questa decisione?
Nel luglio del 2024, mentre ero alla fine di un lungo periodo sabbatico in alta montagna, mi è arrivato un messaggio di un tizio che diceva di scrivermi dal Jungle Sound e che aveva un’idea. Era Emanuele Concadoro, il titolare di Maiunanoia, che opera, appunto, nelle mura dell’ex-Jungle, oggi centro di produzione e post-produzione video. Conoscendo la storia di quel posto, a Lele è venuta l’idea di raccontarla e ne ha parlato con Lorenzo Rocchi, copy milanese, perché ne diventasse autore. Ci siamo piaciuti, noi tre, ed eccoci qua.
Cosa volete veicolare, a chi e a cosa sperate di arrivare?
Guarda, la speranza è di essere riusciti ad evitare l’effetto nostalgia. Il valore principale da trasmettere era quanto una generazione con qualche mezzo, molte pezze al culo e tanti sogni, abbia dato vita a una svolta epocale della musica italiana.
Qual è stata la reazione degli artisti alla richiesta di partecipare?
All’inizio hanno accettato tutti con curiosità. Poi, quando sono entrati al Jungle (che è identico a com’era), le emozioni sono cambiate e ci siamo ritrovati tutti a capire pezzi del nostro passato che avevamo parcheggiato lì. Tutte le interviste hanno almeno un punto di apertura, di profonda sincerità.
Cos'è stato Jungle Sound esattamente?
È impossibile definire in poche parole il JSS. Era un centro sociale, un’industria, un rifugio, un clan. Facevamo feste da 2000 persone e, il giorno dopo, riunioni coi vertici di multinazionali per consulenze o eventi. Trovavamo musica, la registravamo, sonorizzavamo spot, inventavamo qualunque cosa e cercavamo di realizzarla. Il Jungle non è mai stato mainstream o indie o qualcosa di etichettabile: era un posto nel quale delle persone facevano ogni singola cosa al meglio possibile coi mezzi disponibili, piccoli o enormi che fossero. Abbiamo trasmesso sapere, ne abbiamo creato di nuovo, generato gruppi di lavoro di ogni tipo. Abbiamo sbagliato un po’ e fatto un sacco di cose belle.
Esistono o possono esistere ancora realtà cosi?
Non ne esistono, che io sappia. O meglio, non esistono con quelle caratteristiche import/export culturale, un laboratorio-spugna che assorbe, crea squadre, rielabora e ributta fuori. Se può esistere? Mai come ora. Immagina di abbattere le barriere tra qualunque genere, addirittura tra le forme d’arte. Immagina un pool di persone innamorate del fare bene, senza più la mentalità “talent” che vede un vincitore o il nulla. E immagina che tutto questo sappia fare i conti con la sopravvivenza e abitare nel mercato. Tu che dici?
I nomi fondamentali di questa storia?
Impossibile rispondere: decine o centinaia di persone hanno dato un pezzetto di sé per comporre il mosaico che era quel posto. È per questo che dico che il Jungle alla fine aveva una vita propria. Aveva assorbito le energie di così tanta gente da averne generata una a sua immagine. Ovvio che se non ci fossero stati i Ritmo Tribale non mi sarebbe venuto in mente; ovvio che senza di me non sarebbe nato, ma il nome fondamentale del Jungle è Jungle.
Cinque pezzi che descrivono quell'epoca.
L’assoluto dei Ritmo Tribale; Sempre più vicini dei Casino; È praticamente ovvio dei Bluvertigo; Rapace degli Afterhours, Rosemary Plexiglass degli Scisma e Il cielo dei Karma (sono sei, lo so, ma non ne basterebbero 600).
Come descriveresti la Milano di allora?
Milano era un’eruzione, nei ‘90. Dopo gli ’80 del Berlusca avevamo una voglia di fare e un’energia senza pari. Il Jungle è stato solo l’inizio; poi, come uno tsunami, nel giro di mesi la “nostra” città si è trasformata in una tana fatta di luoghi e spazi che erano punti di riferimento. Locali, piazze, studi. Dallo Yar, al Jungle, fino a Garigliano, Pergola, Leonka. I nord magnetici tra noi cambiavano di pochi gradi, eravamo compatti e consapevoli che quello che stava succedendo ci dava forza.
E la discografia di allora?
La discografia indie stava spingendo dal basso, in Italia come fuori, e le major si erano adattate creando dei sotto brand per gestire – come potevano – le band e i primi rapper. La Polygram fece la Black Out, Ricordi la Ritmi Urbani, e così via. Erano situazioni che tentavano di lanciare un ponte tra noi e il mercato. Fu un’occasione, senza dubbio, ma anche un’enorme disgrazia. Una major resta tale anche se mette un A&R illuminato a occuparsi della suburbia.
Cos'è rimasto?
Ogni epoca prepara la strada a quella successiva, è ovvio. Rimangono tracce che si sono evolute. Come noi non saremmo esistiti senza che il punk ci aprisse la strada, così la trap o la drill parlano un linguaggio che – nel cuore – non è molto distante da cose del passato. Infatti, ci sono cose che i miei coetanei schifano a gran voce e che io trovo invece più che apprezzabili se semplicemente apri un po’ la mente quando ascolti.
Che ne pensi di come stanno le cose oggi?
Be', oggi è la rivoluzione. Una fila di 0 e di 1 ha stravolto (ma questa parola non basta) tutto. Ma tutto davvero. Socialità, creatività, produttività. La discografia la vedo pasciuta: una volta trovata la quadra col digitale, la fine del supporto fisico ha determinato un enorme abbattimento delle spese: pensa solo a stampaggi, magazzini, resi, invenduti, etc. Tutto questo è sparito e, anche se la fuizione paga meno, il vantaggio è indubbio. Anche le produzioni sono ribaltate: oggi per avere le possibilità dello studio del Jungle ti bastano pochi euro e puoi averle in casa. All’epoca ci volevano centinaia di migliaia di euro. Ovvio che se ti aspetti di andare col demo da qualcuno che punti su di te sei al museo, ma i mezzi di comunicazione ti danno ben più possibilità dell’A&R di cui sopra, se sei in gamba. E questo è un problema tuo, perché l’amico dell’amico non serve più: di gente in gamba ce n’è tanta e la proposta è annegata in una marea di sterco.
Tornerà l'undergrdound?
L’undergound non se n’è mai andato. È cambiata la geografia, non la sostanza. Se vai ai giardinetti di Milano Ovest, la sera vedi i ragazzetti che si passano i telefoni per ascoltare le cose che hanno registrato nel pomeriggio, e ascoltano insieme perché fanno parte di una scena. O, meglio ancora, si preparano a crearne una nuova. Lo stesso succede nelle salette tipo Massive Arts, etc. Se invece la domanda è se rivedremo “quel” tipo di underground, la risposta è – ovviamente – no. Il tempo passa e, per fortuna, le cose cambiano abito.
Cosa ti piace oggi nella musica italiana?
I testi, principalmente. Non tutti, è chiaro, anzi. Come è da sempre (per me, almeno), trovo che la maggior parte dei versi siano puerili e scritti male. Ma ci sono delle punte di diamante che hanno penne illuminate. Sono parole usate in maniera diversa perché la forma canzone è quella, ma ci sono frasi o interi testi che emergono come i fiori del letame citati da De Andrè. Sono modi poetici di una poesia che può ricordare il Bukowski più ubriaco o i testi del punk più violento, ma carichi di emozione e di vissuto al punto da sembrare impossibile che vengano da ventenni.
Si può dire che il Rockit degli inizi sia stato "incubato" dal JSS. Che ricordo hai?
Meraviglioso è la parola giusta. Ricordo perfettamente il giorno in cui Fabio della Mind venne a chiedermi cosa ne pensavo dell’ospitare (nel senso web della parola) un manipolo di 20enni esperti sia di musica che di rete (la “prima” rete, intendo) che volevano dar vita a una community. Da lì a convivere anche fisicamente il passo è stato brevissimo. Ricordo giorni in cui si lavorava in nove su tre scrivanie (e, almeno in due di noi, eravamo belli grossi). Rockit ha trovato la base che serviva per incontrare, creare e registrare (Aiuola docet), io ho trovato i partner per alcuni dei progetti più entusiasmanti del Jungle. Era entusiasmante e ogni giorno ci vedevamo con Pons (che lavorava anche alla Mind, dall’altra parte del divisorio), Fiz, Carlo e gli altri: modi diversi di vedere le cose e confronti continui. Tengo per ultimo Acty perché con lui è diventata fratellanza. Manco abbiamo solo vissuto insieme, gli ho anche affidato casa (e cani) quando ho conosciuto mia moglie. Con lui abbiamo creato dalle gare di polpette al contest di Heineken e un milione di altri progetti. Ecco, il periodo in quella mansarda credo sia stato il più bello del JSS: avevamo voglia e modo di fare. Meglio di così, è difficile.
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L'articolo Jungle Sound era "un centro sociale, un’industria, un rifugio, un clan" di Redazione è apparso su Rockit.it il 2025-07-10 12:43:00
COMMENTI (1)
Unfiinished love.