La profezia di Mox-tradamus

“Anni Venti” è il primo disco in italiano del cantante trentino, che ci fa immergere in un’atmosfera rock e tetra almeno quanti i tempi che stiamo vivendo. Ma forse il peggio deve ancora venire…

Quello che per l'albo del Trentino è il talentuoso giornalista Gianluca Taraborelli, per i più fortunati è noto col nome di Johnny Mox. Polistrumentista classe 1980 con quattro dischi alle spalle, tre tour europei, un tour americano, centinaia di concerti in tutta Italia e decine di progetti di cui forse il più famoso resta Stregoni (ma ricordo con piacere anche Sermoni sul rimpianto Bastonate, e di recente il podcast Sete, e il progetto musicale Addio Addio con Lovra Gina), Mox ha sviluppato negli anni uno stile personale che mescola spiritual, songwriting e sperimentazione.

Originario di Trento ma apolide come pochi altri nel panorama italiano, Johnny fa parte di quello sparuto numero di artisti underground che negli ultimi anni hanno contribuito, se si riesce a notarlo, a rendere il sottobosco musicale nostrano come più interessante agli occhi del mondo intero, che notoriamente non vede proprio nel bel Paese l'emblema della musica rock e non dimentica mai di sottolinearlo.

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Tra questi artisti (talvolta diversissimi tra loro) che animano la vita musicale sotto la superficie della vecchia Italia “con una tradizione melodica fantastica ma di certo non nota per le rock band” (Mick Jagger dixit), ne troviamo alcuni che, pur eccellendo, si sa che rimarranno quasi certamente relegati al magico e affascinante mondo dell'underground. Altri, suonando invece musica magari più impattante, possono (o a differenza dei primi vogliono) uscire allo scoperto, pur continuando a proporre un proprio discorso, quanto più possibile senza compromessi.

L'esempio di artisti come il redivivo Calcutta, Niccolò Contessa se volete, o Giovanni Truppi se vi pare, entrati in classifica mantenendosi a loro modo lucidi e integri, non deve essere stato uno stimolo invitante per un uomo oramai fatto e coeso come Johnny. Ma l'idea di essere meno chiuso a riccio nella propria “bolla” istintiva e trasversale, e forse persino più (passatemi il termine) “comprensibile”, quello sì, mi viene da credere di sì. Già, perché con un passato fatto di Fender Jaguar, beatbox, loopstation e blues e spirituals, il quasi 45enne Mox ha sempre avuto tutti i numeri per colpire favorevolmente un buon numero di amanti dell'indie-rock più schietto, incisivo ed emozionante... ma tutti gli altri?

Il Reverendo Mox, come lo chiamano con affetto, torna così a cinque anni dall'ultimo Future Is Not Coming But You Will (To Lose La Track, 2018) con il suo primo album interamente in italiano: Anni Venti (To Lose La Track, 2023). E se vi state chiedendo se questa sia l'unica mossa possibile (Afterhours, Elisa, FBYC, Cosmo...) per arrivare pure a vostra sorella, beh, se vivete in Italia e non a Cardiff, plausibilmente, è assai probabile di sì, ma dipende sempre e comunque da vostra sorella – alla mia, ad esempio, non cambierebbe assolutamente nulla.

Quindi per quelli che, parafrasando Libero De Rienzo in Santa Maradona, le cose proprio non le riescono a vedere neanche se sono enormi finché non ce le hanno sotto al naso, Anni Venti inizia ad avere tutte le carte in regola per guadagnarsi un'attenzione maggiore di quella prestatagli da un gruppo limitato di adepti. Parlavo di Giovanni Truppi, non a caso; Johnny Mox sembra qui depositario di un'idea di rock che si muove secondo regole e percorsi che possono ricordare l'approccio dell'autore di Poesia & Civiltà se solo Truppi fosse più legato a un Micah P. Hinson che al cantautorato pop-litico (non che Gianluca e il suo alter-ego non siano politici, anzi...) italiano. Si tratta comunque in ambo i casi di una boccata d'ossigeno, dura, cosciente, imparentata con certa elettronica ben fatta pure da noi (Incani, Salogni, Bernacchia, eccetera) ma che, sia chiaro, è proponibile perfettamente come musica nuova (ecco che tutto torna) per gli anni Venti che stiamo vivendo.

Oggi, dopo quattro dischi e tre tra EP e uno split con i Gazebo Penguins, Johnny Mox è ancora più cantante e frontman, anima trascinante di tutto l'incisivo ambaradan che inevitabilmente prende il suo nome. Un progetto vivido e sicuro, per forza di cose nato da qualcuno di esperienza. “Rapper al liceo, poi batterista dei Nurse!Nurse!Nurse! più avanti, poi ho comprato una loopstation, ho iniziato a giocare con i cori e i suoni e da lì non mi sono fermato. Ho cominciato a usare il nome Johnny Mox anni fa, nel periodo in cui ho vissuto a New York e mi è rimasto sempre attaccato. Mox è una parola latina che significa adesso, subito, presto. Quindi il nome che ho scelto ha in qualche modo a che fare con l'urgenza. Significa eccomi, questo sono io, adesso”.

Johnny Mox espone tenacemente gli intenti della ricerca di un suono magari non distintivo ma di certo personale all'interno di un nuovo movimento “alternativo” italiano, una scena che al giorno d'oggi sembra desiderare difendere la peculiarità di certi approcci e di certi contenuti tipicamente 90's ma con una vitalità innovativa che non cede nel semplice vintagismo reynoldiano (oramai, possiamo dirlo) straccia-maroni. Anni Venti nello stesso momento, tende a sottolineare subito la propria devozione nei confronti della poetica nera dei Cave, dei Gira, dei Sandman, dei Waits e poi basta che ci siamo capiti. Tale amore affiora senza dubbio nei solchi come principale.

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Oltre questa, le coordinate di Mox stupiranno qualcuno. “I Beastie Boys di Check Your Head, Wrong dei Nomeansno, SxM dei Sanguemisto, James Brown del Live at the Apollo, Sam Cooke del Live at Harlem Square Club, il disco omonimo di Battisti, Studio Uno di Mina, The Shape Of Punk To Come dei Refused, Trust dei Low e Hot Dreams dei Timber Timbre”. Eterogeneità, ma unita da un solo filo conduttore chiamato “Johnny Mox” appunto, e speziata ulteriormente da quelli che Oliver Sacks chiamerebbe giochi dell'udito e giochi della mente; è il suono delle parole cantate in italiano, un idioma per forza di cose a noi più comune e quindi sovrapponibile a quello di altri ancora, nel creare affinità quantomeno sorprendenti, se si pensa al suo passato recente.

Così, se Alberto Ferrari che canta in inglese suonerà solo come Alberto Ferrari che canta in inglese (e così come chiunque altro, che non mi par che Godano diventi Dylan), Johnny Mox in un inedito italiano ha dei rimandi a Moltheni (Rotta), ai Marti (Chi non si ferma è perduto) di Andrea Bruschi, ai Bachi da Pietra (A.I. Paura), ai Baustelle (Whole lotta di classe). Certo molto fa il testo e le parole. Da quello viene tutto il corredo interpretativo della canzone. È politico? È sarcastico? È emotivo, ma il tanto che si può perdonare? È demenziale (filone che io tollero a fatica)? È simbolico? Di che cosa parla? Difficile riuscire a scindere le due cose, e quasi impossibile se si conosce bene la lingua e le sue espressioni musicali.

Bianconi che canta Le Canzonine per bambini di Enrico Gabrielli, del resto, ricorda un De André nella sua veste più fiabesca ma nessuno credo gliene abbia fatto una colpa sistemandosi gli occhiali con l'indice. Sono scherzi della mente. Succede. Ma una cosa è certa: la commercialità della musica in italiano è del tutto relativa e non si giudica da queste cose. Vi invito ad ascoltare Non si torna più indietro, Sssh e Cosa mai potrà andare storto, per rendervene conto voi stessi. Ed è logico che a simili osservazioni venga da chiedersi quale sarà la resa del nuovo tour partito dal Mafalala Festival di Maputo in Mozambico, il 17 novembre, per poi arrivare in Italia e in Europa. “Suono in solo per la prima parte di tour. Il concerto sarà molto carico ed energetico, molto più elettronico rispetto al disco, con parecchio materiale del mio repertorio. Ho intenzione di lasciare sempre una parte in scaletta per idee ed esperimenti nuovi, dato che Anni Venti è per definizione un un disco non finito, in divenire”.

È quindi assai possibile che Johnny non voglia essere catalogato in nessun ambito se non quello del più verace raw'n'roll su cui tanto insiste - e certo comprendiamo. D'altra parte, e siamo sinceri, una così profonda verve personale è parte importante nelle canzoni. Mista di noia anarchica, cara malinconia universale e vezzi bohémienne, indagati con inquietudine e un pizzico di humor noir. Lui stesso si tradì quando rispose a una domanda sulle cover eseguite dal vivo. “Royals di Lorde e Cold Water degli Old Time Relijun sono le uniche cover fatte, ma tendo a creare un'esperienza che non sia intercambiabile con altre”.

Non a caso oggi rilancia e afferma: “Per me è importante assecondare il cambiamento, sentire che sto andando in una direzione artistica di cui non ho il controllo completo. Non è il contenuto che conta, è il contenitore. Anni Venti è la mia piattaforma. Avevo bisogno di un progetto aperto, una cosa che proseguirà per i prossimi sette anni. Il desiderio è quello di spostare e demolire i confini dell'album, di avere una strada aperta verso l’ignoto, di creare un contesto più largo. Cerco di restare con gli occhi aperti, pronto a tutto, anche perché gli Anni Venti sono appena cominciati”. A parte dunque questo futilissimo problema della definizione del suono, c'è da sperare che il futuro di Johnny Mox sia denso di soddisfazioni. Perché vorrebbe dire che anche noi stiamo continuando ad andare nella direzione giusta.

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L'articolo La profezia di Mox-tradamus di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2023-11-20 15:44:00

Tag: rock album

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