Per un manifesto del nuovo folk italiano

Da quanto tempo nel nostro Paese non si fa un disco di genere potente, vero, che racconta la terra e chi la abita? Un appello a Capossela, Appino, Pan del Diavolo e chi ci vuole stare

Il Pan del Diavolo al MI AMI 2017 - Foto di Alessandro Sozzi
Il Pan del Diavolo al MI AMI 2017 - Foto di Alessandro Sozzi

Era gennaio. Freddo non ne faceva molto. La mia collaborazione con Rockit era iniziata da poco più di un mese. Cominciavo a prenderci gusto nell’ascoltare novità assolute e semi-sconosciute. Farmi un’idea di questo o quel disco. Tutto bello. C’era però un fatto che mi straniva abbastanza: tre album folk assegnatimi in trenta giorni. Una coincidenza? Un revival dovuto a un anniversario? Non lo so, e sticazzi.

Il fatto è che si trattava di lavori superficiali e pettinati. Poco sopportabili in generale. Ciò che mi infastidiva era questa sorta di clausura, nella quale gli artisti avevano rinchiuso il folk. Totalmente ingabbiato in formulette schematiche, imitazioni, fabiovoliane frasi fatte, e il verso fatto ai rispettivi beniamini. Siamo proprio sicuri che il folk sia ‘sta roba qua?

Pregare un artista di non essere la copia del proprio ispiratore vale in tutti i campi, ma in questo caso specifico, forse, ancora di più. Perché se è lampante che l'imitazione non funziona, nel folk, anche la tendenza all'emulazione provoca sbadigli epocali. Direbbe un grande che la vita è troppo breve per ascoltare musica pedante. Dunque, un favore per tutti: basta reccare esercizi. Quelli sono divertenti in sala prove. O alla festa della salama da sugo di Edolo. Chi è disposto davvero ad ascoltarsi una cover uguale all’originale in cuffia? Poca gente, e disattenta.

video frame placeholder

Il folk è una musica molto delicata. Va curata, ma non imbalsamata.  Lungi da me fare pipponi storici, vorrei ricordare un paio di fatti. Negli anni ’60 in America la popular era una faccenda bollente dal punto di vista dell’impegno sociale. Ma ciò non toglie che fossero tutti dei dannati Re Mida, dalle cui chitarre colava oro. Quella lega di autori ha insegnato che se non puoi pararti il culo con arrangiamenti magniloquenti, c’è bisogno che le cose che scrivi stiano in piedi così come sono, nude. Questione di qualità, di tatto e, perché no, di poesia e di genio.

C’è poi un’altra corrente del folk che si è impossessata in modo inesorabile del mainstream. Folk-punk, di ispirazione irlandese, che dai Pogues è partito, e con loro ha avuto modo di consumare le cose da dire nel giro di pochi anni. La vena combat, politica, in questo caso era accompagnata da una sana dose di strafottenza, sudore e alcool. Un sentimento senza pari. Un canto di storie antiche, oralmente tramandate, ma sparate fuori con pifferi e batterista in piedi. Si capisce che riproporre pedissequamente uno stilema del genere non ha senso. 

Ora, è probabile che qualcuno pensi che in Italia il folk di qualità si sia fermato a Riportando tutto a casa, ma fortunatamente non è così. L’esordio dei Modena City Ramblers era un disco potente dove, nonostante la poca originalità musicale, lo stupore veniva dalla voce di Cisco che cantava in modenese, dai funerali di Berlinguer e dal lamento di un’Italia martoriata (era il 1994). Un canto davvero popolare; radici e politica, per uno dei pochi dischi genuini ed esagitati della band emiliana. 

video frame placeholder

Il folk è una ballata peculiare, sulla terra. Non la terra astratta. La terra sporca e marrone che macchia i jeans facendoci bestemmiare. Una delle migliori canzoni folk italiane del nuovo millennio viene senza dubbio dalla Toscana. Si chiama Pisa merda, arriva dagli Zen Circus. Zero mandolini, niente piglio danzereccio. Cosa rendono questi quattro minuti così speciali? Il racconto. Il racconto di una realtà, peculiare, il provincialismo dei pisani. Viene preso come paradigma (perché vissuto amaramente da chi canta), e funge da catapulta colma di escrementi indirizzata sulle dinamiche di provincia di tutto il bel Paese.

È il momento di fare un appello. Appino, Alosi, Vinicio (Capossela), organizzate un capannello di amici, redigete il manifesto programmatico del nuovo folk. Un “Dogma2020”. Un monito dirompente, radicale, ad avere cura della propria musica popolare, a decidersi, prendere una direzione senza compromessi. Che a parlare di terra e radici non si è per forza campanilisti. Che cantare in dialetto non è solo roba da osteria. Che la verità non è solo per il rap.

Cantare le novelle di Giambattista Basile, esigere potenza, sudore, senza temere di appartenere a qualcosa, ma facendolo con parzialità. New folk frontieres

---
L'articolo Per un manifesto del nuovo folk italiano di Gabriele Vollaro è apparso su Rockit.it il 2020-03-18 10:08:00

Tag: opinione

COMMENTI (2)

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia
  • gabvollaro 4 anni fa Rispondi

    @malobo62 con "reccare esercizi" intendevo registrare canzoni che altro non sono se non meri esercizi di stile (in questo caso riferito al genere folk).
    Grazie per le critiche
    ciao

  • malobo62 4 anni fa Rispondi

    Gabriele, cortesemente, che cosa significa nel tuo vocabolario "reccare esercizi"?
    Grazie
    Articolo con molte ingenuità, però forte del suo quesito :)
    Ciao