Milano, è il momento di ricostruire l'identità della città

Per un decennio il "modello Milano" è stato magnificato da ogni parte, ma ora il virus mette in discussione tutto, come dimostrano la chiusura dell'Ohibò e la crisi di realtà storiche e preziosissime. Conversazione con l'assessore Filippo Del Corno, per capire come non perdere tanta ricchezza

19/06/2020 - 17:15 Scritto da Dario Falcini

Quello che è successo a Milano in questi mesi è abbastanza surreale. Autentico place to be non solo nazionale, ma mondiale, negli anni '10 è stata al centro di una narrazione di successo straordinaria, totalmente anticiclica rispetto a un Paese considerato in inesorabile declino. La Milano delle mille opportunità lavorative, di divertimento e di cultura. La Milano europea e inclusiva, passata da essere culla del socialismo yuppie e poi del berlusconismo a divenire avamposto del centrosinistra tricolore in uno dei momenti più complicati della sua (complicata) storia. 

A inizio marzo, con qualche giorno di delay rispetto a Codogno e alla scoperta del paziente uno, la metropoli si trovava epicentro di qualcosa di terrificante, spaventoso perché sconosciuto. Il virus ha scavato la città e la sua anima, financo il suo "modello", tanto decantato – e non a torto, badate bene – in questi anni. Se negli ultimi anni pareva di molto ridimensionato quell'astio nei confronti dei primi della classe che in molte città italiane si manifestava verso chi arrivava dal capoluogo lombardo, ora i milanesi si ritrovavano a sperimentare uno stigma infinitamente più doloroso, che richiama a tempi antichi.

I mesi sono passati, ma Milano e la Lombardia si trovano ancora nel guado. Intanto è il momento della conta dei danni per quanto riguarda le imprese colpite dal lockdown, che del successo della città pre e post Expo sono state l'instancabile motore. E quello della ripresa delle attività economiche, prima che il collasso del sistema – che dopo aver mostrato tutti i suoi pregi in questi anni, ha evidenziato anche profondi limiti – sia definitivo.

Il problema – e chi lavora con la musica e la cultura lo sa probabilmente meglio di chiunque altro – è che alle condizioni attuali si tratta di una ripresa impossibile. E per molti questa esperienza rappresenta un fine corsa inevitabile, come dimostrano realtà molto diverse tra loro, ma altrettanto fondative per la città, che hanno annunciato il forfait, come il negozio di dischi Mariposa e il circolo Ohibò.

Sono perdite dolorosissime, perché arricchivano l'offerta della città di qualcosa che altre attività, fedeli ad altre dinamiche, non potevano dare. Senza di loro – e molti altri con loro – tutto quel discorso sull'inclusività e sulla pluralità rischiano di venire meno. Ed è una cosa che Milano deve a tutti i costi evitare.

Di questo, e i più in generale di quello che sta accadendo al sistema delle arti e dello spettacolo in Italia, parliamo con Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano. Perché, se di certo non è a un'istituzione che si può chiedere di fare vivere un'impresa – per quanto socialmente molto utile – che sta sul mercato, è quanto mai necessario sapere ora con che idea di città si vuole uscire dall'emergenza, e come fare per renderla concreta. Del Corno, inoltre, è un musicista, compositore, divulgatore e docente di Conservatorio, e si è sempre occupato di organizzazione e gestione di attività culturali, fondando, anche nel 1997, l'ensemble Sentieri Selvaggi. Sa di cosa si parla, quanto sia inedita e grave questa situazione, quanto sia necessario ragionarci su e farsi venire delle idee. 

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Iniziamo con le definizioni: è il momento della... ripartenza?

Io preferisco dire ripresa. 

Personalmente che effetto le ha fatto "tornare a vivere"?

Domenica scorsa sono andato all'evento che segnava la riapertura del Teatro Dal Verme e mi sono reso conto che è stata la prima volta, da quando sono diventato maggiorenne, che ho passato 100 giorni senza ascoltare musica dal vivo. Data la mia professione e la mia passione per la musica, non avevo mai trascorso più di 4 o 5 giorni senza la musica dal vivo, che fosse un artista di strada o un grande evento. Ora sono stati 100, un'eternità.

Come è stata questa assenza?

L’assenza della musica dal vivo nella mia vita è stata un’esperienza dolorosa per me: domenica scorsa ho percepito quanto il lockdown sia stato un fatto grave non solo per i lavoratori e le lavoratrici della musica, ma anche per la comunità cittadina. L’impossibilità di ascoltare musica dal vivo ferisce l’esperienza quotidiana della cultura. 

Da cosa si riprende?

Dalla cultura, naturalmente. Inizierà l’Estate Sforzesca il 21 giugno, riprende l’attività del Piccolo Teatro con una performance di Stefano Massini e di Paolo Jannacci. Torna la possibilità di ascoltare musica dal vivo, ma bisogna accompagnare e facilitare questo ritorno.

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Il refrain è "la musica live è stata la prima a chiudere e sarà l'ultima a tornare" (ok, anche la scuola è parecchio competitiva in tal senso). Il settore è stato penalizzato? 

Penso che sia stata operata una forma di cautela e prudenza assolutamente giustificata, il punto è che non abbiamo visto analoga cautela e prudenza in altri settori. Il fatto è che i luoghi della cultura, le sale da concerto, i club, i musei e le biblioteche hanno avuto lo stigma di luogo insicuro molto superiore a quella che è la realtà dei fatti. Se si adottano comportamenti responsabili in un museo o in un teatro, il rischio è pari a quello che si corre a frequentare un supermercato piuttosto che un ristorante. Il tema è questo: perché è stato buttato addosso a questi luoghi la croce della pericolosità?

In questo momento ci sono le condizioni per la ripresa?

L'altro rilievo critico che continuo a fare è proprio la mancanza di una gradualità, di un percorso serio per la ripresa. La chiusura era doverosa, però la riapertura andava programmata e progettata con altri tempi: non è possibile dire a metà maggio che si riapre il 15 giugno con certe norme, e poi cambiare con le indicazioni il 12 giugno. La vita della produzione culturale ha bisogno di tempi di programmazione certi. È dall’inizio del lockdown che insieme a 11 colleghi assessori delle città capoluogo di regione abbiamo creato un coordinamento e chiediamo una calendarizzazione che permetta ai teatri e ai luoghi dello spettacolo di pensare a un ritorno dei cicli produttivi, che sono assai complessi: prove, presenza tecnica non solo artistica, programmazione, necessità di promozione delle iniziative.

Manca una consapevolezza da parte del legislatore di cosa sia il lavoro nella cultura?

Un po' temo di sì, soprattutto da parte di alcuni membri del comitato tecnico scientifico, dei consulenti di cui il governo si è dotato. Una maggiore gradualità e una maggiore tempestività nelle indicazioni per quanto riguarda la progettazione delle attività sarebbero state molto utili. 

Molti operatori del settore si sono sentiti abbandonati, dicono che la musica deve essere trattata come un lavoro e non solo come una passione che porta avanti chi può permettersela, magari nei ritagli di tempo o grazie a delle rendite. Vittimismo o triste presa di coscienza?

Il mio punto è questo: se la produzione di valore musicale o teatrale diventa un business in mano a delle società che rispondono a degli azionisti, allora il solo principio del vantaggio economico determina le scelte. Se invece ciò che muove la produzione musicale e teatrale è l’esercizio di una funzione pubblica in cui il tuo azionista non è un privato, che detiene le quote della tua società, ma il tuo azionista è la società, a cui tu stai dando qualcosa di importante, allora la prima preoccupazione diventa la sostenibilità economica complessiva e non il margine di guadagno. La situazione attuale, pur con tutte le difficoltà, per me permette ancora la sostenibilità economica: ti permette cioè di fare in modo che le cose siano in equilibrio e che la tua proposta musicale e artistica sia qualcosa in cui le azioni le detengano non degli stakeholder economici, ma la società stessa, che è anche pronta a fare dei piccoli sacrifici affinché la funzione propria della cultura vada avanti.

Però temo stia passando l'idea – già radicata in molti – che fare cultura in tempi di crisi sia più che altro una forma di testimonianza. E sarà molto difficile estirparla. 

Quelli che oggi, nonostante tutto, stanno andando avanti con le attività, non lo fanno perché sono incoscienti o solo per passione e entusiasmo: vanno avanti perché stanno rispondendo a una responsabilità sociale, di cui l’interlocutore è la società intera. E tutta la società deve fare in modo che questa cosa stia in piedi, e non possiamo correre il rischio di gettare un'ombra di dilettantismo addosso a queste attività.  

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Dopo aver invocato dignità e un sostegno, è bene anche fare un po' di autoanalisi. Il lockdown ha svelato come quello musicale – in Italia e non solo – sia un sistema dopato, fatto di enormi disparità e miopia. Un gigante dai piedi di argilla che al primo stop – epocale, certamente – rischia di andare per terra. 

La fragilità del sistema è emersa molto evidente, e deriva da diversi fattori. Ma ciò che a me da sempre più preoccupa è la scarsa o nulla considerazione che il nostro Paese ha dal punto di vista legislativo e sociale rispetto al lavoro del settore culturale. In Italia si pensa, e purtroppo si legifera, in coerenza con questo pensiero. Per altro la questione è ricorrente nella storia della cultura: la carriera di Mozart è un'eterna e costante rivendicazione dell’assoluta necessità che il suo lavoro venisse remunerato in quanto autore e non “al servizio di”. Prendiamo due suoi ultimi capolavori: La clemenza di Tito è un’opera commissionata da un teatro, attraverso quelle formule produttive tipiche del mecenatismo dell’epoca; Il flauto magico, invece, era un’opera nata in un contesto  borghese, per un pubblico pagante dentro un’economia di sistema produttivo, e necessitava del botteghino. Noi oggi queste due opere le ascoltiamo nei teatri lirici senza neanche porci la questione, ma nel diverso contesto da cui provengono c'è riassunto un tema decisivo come la libertà dell’artista.

Che dipende per forza dalla sua possibilità di vivere del suo lavoro?

Certamente sì, anzi questa cosa è stata determinante nello sviluppo storico dei linguaggi artistico-performativi. Oggi chi lavora nel mondo dello spettacolo dal vivo può essere autonomo, libero, indipendente se viene riconosciuto il suo esercizio di professione come del tutto identico nei diritti a qualsiasi altra forma di lavoro. Dovrebbe essere pacifico, invece il coordinamento degli assessori che prima citavo è dovuto andare al tavolo di lavoro con il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per chiedere (e ottenere) che anche i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo potessero accedere alla misura dei 600 euro. Questo la dice lunga su come nel nostro Paese venga considerato chi si dedica alla musica o al teatro, che sia artista o che sia tecnico, o amministratore.

La causa dei mali del sistema sta dunque qua?

Il sistema smette subito di funzionare se si assume il principio che l’arte e lo spettacolo siano dentro a un meccanismo di produzione di valore economico che la società riconosce allo stesso modo degli altri. Finchè non sconfiggiamo questo pregiudizio e non facciamo in modo che di conseguenza si legiferi, non riusciremo a evitare che poi si creino situazione deteriori. 

L’Ohibò ha chiuso, prima era toccato a Mariposa. Che Milano rischiamo di trovare fra qualche mese?

Tutti i fenomeni di crisi producono in genere spirali recessive, e il vero rischio è che la città si faccia avvitare all'interno di essa anche per quanto riguarda la proposta e l’offerta culturale. Bisogna evitare che questo accada, agendo su due piani. Soccorrere in forma immediata i soggetti, soprattutto i più fragili, che sono in difficoltà. E fare riprendere al più presto la fornitura dell'offerta culturale della città, la cui necessità è confermata da queste giornate. Anche perché il surrogato digitale che molti soggetti hanno giustamente praticato nei 100 giorni di chiusura ha soddisfatto sì un bisogno primario immediato, ma ha accesso ancora di più l'urgenza della condivisione. 

Il punto, però, mi pare questo, e chiedo scusa per la brutalità della sintesi e per la semplificazione di concetti che tali non sono: se un certo tipo di attività culturali, quelle più ricche e remunerative, probabilmente troveranno il modo di ripartire, altre, che non sono pubbliche ma svolgono eccome quella funzione collettiva di cui prima parlava, sono già all'apnea. La ricchezza di Milano negli ultimi anni, da tutti riconosciuta, era data da un mix dei due aspetti. Se ne dovesse rimanere solo uno, sarebbe un gran guaio per la città: molti ne sarebbero culturalmente "espulsi". 

Abbiamo visto in questi mesi, cinicamente, alcune persone gioire per una città che si stava spegnendo, come a dire: “Milano si è drogata di una brutta sostanza negli anni ‘10 e, adesso che non ce n'è più, giustamente, muore”. Sono affermazioni irresponsabili, ma su cui vale la pena riflettere. Che Milano vogliamo negli anni ’20, posto che a me quella degli anni ’10 è piaciuta tantissimo? Di certo lo sviluppo di questi anni, come sempre accade quando ci sei dentro, ci sembrava l’unico possibile, e ce ne siamo nutriti in maniera bulimica. Invece adesso ci rendiamo conto che non era l’unico modello di sviluppo, ma uno dei modelli, e per di più pieno di contraddizioni. Io spero che la Milano di domani sarà una città dinamica, ma non più frenetica. Che sarà una città plurale, ma che non sarà più bulimica. Spero che sarà una città ancora fortemente attrattiva, ma che non sia una città patinata. Una città in cui ci sia la maggiore capacità di condivisione dell’esperienza culturale.

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Sono stati dieci anni di successo effimero? 

No. Tutto il contrario. Sono stati dieci anni sostanziosi, di un sistema culturale complesso e plurale, con un straordinaria articolazione della propria proposta. 

E ora c'è il rischio che l'uscita della crisi sia "a destra".

Secondo me non è così forte, ma c’è. Ed è il terreno di sfida che attende la città, e quindi è opportuno prepararsi a un confronto su questo terreno. Io consiglio al prossimo sindaco di Milano di avere un assessore alla Cultura che non appartenga alla mia generazione: uno che abbia almeno 20 anni in meno di me, perché c’è una necessità di avere altri strumenti di comprensione del reale e che sia pronto a giocare la partita "in attacco".

La vera ripresa, che non è questa, ahinoi, sarà celebrata da Milano con un evento? 

No, perché vorrei rimuovere la dimensione “eventizia” al lavoro, in favore di una dimensione più costante, quotidiana del lavoro. Mi piace di più quello che sta accadendo in questi giorni: tante attività che riprendono senza clamore, senza retorica, senza attitudine celebrativa, senza un carattere di esclusività. Semplicemente hanno riaperto le porte dopo 100 giorni e hanno ricominciato a fare quello che facevano prima, cioè a esercitare un lavoro che produce un valore sociale ed economico imprescindibile per questa comunità. 

Almeno immaginiamoci un video celebrativo (possibilmente più bello di quelli che abbiamo visto in questi mesi). Che colonna sonora ci mettiamo? 

Blood Of Eden, di Peter Gabriel. In quel brano c’è un senso epico di una storia universale, quella canzone ci racconta come la musica sia necessaria per affrontare la nostra esistenza. Non che dobbiamo attribuire alla musica e alla cultura una funzione diversiva, sono momenti fondanti del nostro stare al mondo. E allora che Peter Gabriel ci accompagni.

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L'articolo Milano, è il momento di ricostruire l'identità della città di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-06-19 17:15:00

COMMENTI (1)

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  • marcobrovedani 4 anni fa Rispondi

    Ottimo articolo, ottima analisi, ben chiari certi punti di distinzione.