La scomparsa dei mixtape nel rap italiano

Siamo nella nuova golden age del rap italiano, in cui i rapper non collaborano più tra loro se non in strutture ben organizzate, e il mixtape non si usa più

23/08/2018 - 14:58 Scritto da Raffaele Lauretti

Quando negli anni '80 farsi le cassette in casa diventò alla portata di tutti, altrettanto velocemente iniziarono a diffondersi i mixtape: compilation di musica ordinate in programma continuo e (quando la pratica s’è poi diffusa tra i DJ) mixate a tempo con dissolvenze, modifiche brusche o con un vero e proprio host a far da Cicerone.

Nel rap, poi, musica che da sempre si nutre anche di quelli che vengono spesso visti come furti (e vaglielo a spiegare che il campionamento ha le sue difficoltà e peculiarità), il mixtape è diventato spesso sinonimo di album autoprodotto, rilasciato in modo indipendente e in maniera gratuita. Un modo veloce per ottenere pubblicità e non incappare in possibili violazioni di copyright. Artisti come Busta Rhymes, ad esempio, raccontano di aver guadagnato i primi soldi con la musica proprio registrando dei mixtape (su Netflix “Stretch e Bobbito: Quando la radio ti cambia la vita”). In Italia, negli ultimi anni, la serie di mixtape più famosa è probabilmente “Quello che vi consiglio” di Gemitaiz, giunta al settimo volume. Altri mixtape piuttosto importanti sono stati sicuramente PMC VS Club Dogo, i Fastlife di Guè Pequeno, i Best Out di Noyz Narcos, i Secret Mixtape dei Brokenspeakers, il Sonocazzimiei di Dj Nais (con host di Fabri Fibra, in veste di patron del rap italiano), il Machete Mixtape e, più di ogni altro, “Lo capisci l’italiano?” di DJ Double S, occasioni in cui era possibile sentire rapper da tutta la penisola confrontarsi grazie ai sapienti mix del torinese.

Con l’arrivo del digitale e il conseguente abbassamento dei prezzi di produzione, e grazie a internet che permetteva una rapida diffusione, l’ascesa dei mixtape è stata in un certo senso sinonimo di creatività e democrazia musicale. Sono infatti nati siti in cui trovare ogni sorta di raccolta (DatPiff è stato lanciato nel 2005 ed è probabilmente ancora oggi il sito di riferimento) che si guadagnavano la propria attenzione non tanto sui feedback quanto sulla proposta musicale vera e propria: è gratis da scaricare, quindi tanto vale darci un ascolto; che sia il recap della settimana (selezionato da un DJ e non da un editor o un software, una sottile differenza che però è importantissimo sottolineare), Questlove che suona dei beat di J Dilla o Ghemon che rappa sul beat di Puro Bogotà. Al massimo poi se ne discuteva sui forum.

video frame placeholder

Questa situazione di scambio di strofe tra colleghi, ospitate e competitività dava l’idea che ci fosse un fervore, una creatività e una continuità nella scena rap, un’unità della stessa che oggi di fatto non riscontriamo quanto in passato. Certo, Sfera Ebbasta e Ghali si sono fatti promotori di questo rap italiano ma non dando visibilità a dei nomi per semplice stima artistica (com’è il caso del Sonocazzimiei o de Lo capisci L’italiano?) quanto finanziando artisti tramite vere e proprie case discografiche (BHMG Records e Sto Records rispettivamente), scuderie che sembrano quasi aver sostituito le crew. Di nuovo, una sottile differenza che però è importantissimo sottolineare. Si parla infatti di strutture lavorative ben organizzate, fatte di professionisti, contratti e scelte ben ponderate, anche ovviamente di mercato. 

Firmare contratti per fare della propria musica un mestiere è un’opportunità bellissima e se infatti fino a qualche anno fa l’idea di gavetta era ben chiara a tutti e si produceva tanta musica per farsi notare, oggi la tendenza sembra quasi essersi invertita: alle prime avvisaglie di originalità è infatti molto probabile venire notati da qualche addetto ai lavori per essere inseriti in circuiti molto importanti. D’altronde questo è possibile anche grazie alla fruizione stessa della musica, che è cambiata. Dall’anarchia del freedownload e dei mixtape si è passati alle logiche dello streaming e dell’hype: poco materiale, ben curato, ben selezionato. Una professionalizzazione simile nel rap italiano, oltre al dato crudo (i mixtape a gratis non li fa più nessuno tra i rapper noti e la spontaneità che contraddistingueva il genere è andata a ramengo) ci porta a un dato di fatto importantissimo: perché un progetto indipendente diventi davvero competitivo e noto, oggi, c’è bisogno di una struttura forte tanto quanto negli anni '90 con i vari Neffa, Articolo 31, Sottotono, esponenti storici del genere che hanno venduto tanto ("Così Com'è" degli Articolo 31 è stato certificato due volte disco di diamante per le oltre seicentomila copie fisiche vendute) e che hanno lavorato così bene grazie al supporto di case discografiche come Best Sound, Polygram, Sony e così via. Seguendo quanto detto, forti della presenza così corposa del rap (per la prima volta anche internazionale!) nelle classifiche di vendite, viene da dire con sicurezza che ci troviamo in una nuova golden age per il genere. 

 

---
L'articolo La scomparsa dei mixtape nel rap italiano di Raffaele Lauretti è apparso su Rockit.it il 2018-08-23 14:58:00

COMMENTI

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia