Se l'unica cosa che importa è suonare: Motta e Les Filles De Illighadad

Quella volta che a Berlino lui e Appino si sono ritrovati in una serata da cui Motta non sarebbe uscito mai più

Tutte le foto sono di Silvia Violante Rouge
Tutte le foto sono di Silvia Violante Rouge

Nel fare un live con delle musiciste del Niger, in questo momento storico e in Italia, puoi vederci tante cose. Puoi vederci un valore politico, inteso non come schieramento partitico. Puoi vedere uno slancio che è puramente artistico, nella sinergia di mondi musicali lontani, rispettivamente esotici, forti di una vocazione propria declinata nella lingua dell'altro (che forse è sempre un valore politico). Puoi vederci poi la sintesi di un'esperienza personale oggettivata a pubblica esibizione. Puoi vederci, alla fine, quello che succede davvero prima di tutto questo: Francesco Motta che sopra il palco si diverte come un ragazzino in sala prove a fare qualcosa di diverso dal solito, come se lo avesse fatto da sempre. 

Sabato scorso, tra un meeting e l'altro della Milano Music Week, sotto il palco dell'ultima sera del Linecheck Festival c'eravamo anche noi. Sopra invece c'era Motta, con la prima di quattro date speciali che lo avrebbero visto portare con lui Les Filles De Illighadad. Tre musiciste di un villagio del Niger da cui prendono il nome, una chitarra, il deserto e il tende, uno strumento a percussione in pelle di pecora. Una serie di date europee divise tra Motta e Acid Arab, concentrate in poco tempo per via del visto. Les Filles De Illighadad aprono il live in un turbine di percussioni, chitarre e nenie, probabilmente molto più simile a come viene pensata la musica in posti che non sono questo rispetto alla declinazione decisamente più occidentale, ad esempio, di Bombino.

 

Il live continua innestando i due album dell'artista livornese quasi per intero, in cui Motta sembra però divertirsi un po' più del solito, tra salti, calci e sorrisi. Il perchè forse si capisce meglio quando le artiste africane tornano sul palco e si uniscono alla band, in una jam strumentale che assomiglia più ad un baccanale, una danza della pioggia, un prototipo di gregoriano. Quello che avviene, insomma, è la trasposizione dell'idea di qualcosa di più antico di un concerto, di noi, del festival in cui suonano. Qualcosa di vicino all'eredità dell'idea stessa per cui qualcuno ha iniziato a fare musica. Via col misticismo, via col new age allora, sarà che a vedere uno spettacolo del genere capisci quelli che si prendono la sbandata dell'India e se ne vanno in riva al Gange a suonare il Sitar. Non per buttare tutto insieme, è che l'idea che sostiene le esperienze di misticismo, mantra, ripetizione, rito, canto corale forse nasce proprio dal terreno di quella roba lì, dal fatto che ti incanti a guardare una ragazza che picchia una pelle di pecora finchè non ti scordi dove sei e per un attimo pensi di aver capito tutto. Poi ti passa, ti vanno via i postumi e ti dimetichi com'era, solo con la consapevolezza che c'è stato un momento che di quello che stavano suonando hai capito qualcosa, e se fosse anche solo il fascino del diverso poco importa. Oppure quei postumi lì ti rimangono, ma invece di andare tu in Niger quelle tre strane assurde meravigliose musiciste te le porti in Italia per quattro date nei club.

 

Prima del live vado a salutare Francesco in camerino, insieme a due amici che forse conoscete sotto il nome di Coma Cose. Quando arriva sta già ridendo, cosa che non smetterà di fare per tutta la sera. Il progetto per intero nasce a Berlino, qualche mese fa, quando Motta se ne gira per la città con l'amico Andrea (Appino degli Zen Circus, ndr). È lì, in questo locale consigliato per puro caso da uno che lo aveva riconosciuto per strada, che sul palco si ritrova la band del Niger. Da quella cosa dice di non essersi più ripreso, e se per l'ultimo periodo portarle in Italia non diventa la sua ragione di vita ci siamo vicini per un capello. Così la racconta, semplicemente "i postumi più grandi che abbia mai avuto". Da questa cosa capisci intanto come se la vive Francesco, o almeno ci provi. In seconda cosa capisci il valore di quello che sta facendo, ovvero mettere davanti a ogni valore politico, artistico, identitario o promozionale il sincero divertimento di uno che è tornato un ragazzino con la chitarra in mano. Uno che sta passando un momento per cui di noi, di me, di te e del resto del pubblico se ne frega, e non con lo sprezzo del punk o con violenza ma come uno che comunque ti vuole bene, è contento che tu abbia pagato il biglietto e sia lì e ti chiede di continuo "come sta andando?", ma che comunque più di ogni altra cosa si sta divertendo come uno scemo a suonare. Sarà che poi uno si mette sempre a fare il romantico, ma questa cosa qui ha un valore enorme.

A Berlino Motta ci tornerà tra due settimane, e noi con lui, per la due giorni di Woodworm al Bii Nuu insieme a Ministri, Fask e tutti gli altri. Il punto però è che questa cosa qui a Berlino dovrebbe starci comunque, perchè per quanto siamo portati sempre a guardare fuori come se l'erba del vicino fosse davvero sempre più verde in questo la nostra è almeno altrettanto bella, curata e interessante. Se Motta se ne va a Berlino da solo la prossima volta non stupiamoci di questo, lasciamolo andare perchè se questa è la strada è giusto che sia così e che si porti pure gli altri. Noi teniamoci la consapevolezza che certe cose non dobbiamo andarle a cercare per forza a Kreuzberg o a Soho o nel Marais, le abbiamo pure sui Navigli, a Ostiense e a Porta Palazzo. E, quando le troviamo, trattiamole bene. 

 

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L'articolo Se l'unica cosa che importa è suonare: Motta e Les Filles De Illighadad di Vittorio Farachi è apparso su Rockit.it il 2018-11-24 00:00:00

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