Oltre Liberato: insospettabili neomelodici e trapper napoletani

Liberato è la punta di un iceberg, e in realtà non è neanche l'ascolto preferito dei napoletani: una carrellata su passato, presente e futuro della trap in napoletano

Franco Ricciardi
Franco Ricciardi
07/07/2017 - 11:32 Scritto da Sergio Sciambra

Da quando “Nove maggio” è comparsa dal nulla sui nostri schermi, si è discusso a lungo (troppo?) non solo di testi, beat, autotune e video, ma anche soprattutto dell’identità dell’uomo dietro la giacchetta firmata. A Napoli si è scatenata una caccia all’uomo fra i cantanti, producer e musicisti vari, nella convinzione, più incerta dopo l’esibizione al MI AMI con Calcutta, Izi, Shablo e Priestess, che la verità fosse là fuori, da qualche parte affacciata sul golfo. Oltre a chiedersi chi è, però, davanti all’attenzione della stampa e in generale di un pubblico inedito (o quasi) per la musica locale, alcuni napoletani si sono chiesti anche, con disillusione e un po' di ingenuità, “perché Franco Ricciardi e Ivan Granatino no?”
E che vuol dire? Vuol dire che in effetti, inquadrati in un certo contesto, i due brani di Liberato non suonano rivoluzionari e innovativi come sembrano “da fuori”.
Disclaimer: non stiamo cercando plagi e derivazioni, né sminuendo i brani, i video o il progetto Liberato in generale, quindi se cercate un po’ di polemica attizza-flame contro uno dei nomi più chiacchierati del momento, mi sa che non siete nel posto giusto. Anche perché a chi scrive le due canzoni e relativi video usciti finora piacciono tanto. Semplicemente credo che la musica vada ascoltata e capita anche a partire dal contesto culturale, sociale e geografico in cui nasce; quindi può essere utile fare un po’ il punto sul contesto di provenienza di un artista che, per un motivo o per un altro, è arrivato ad un pubblico che ne era totalmente a digiuno.


(Ivan Granatino)

Quale sia il contesto di provenienza di Liberato lo sappiamo tutti perché si è detto ovunque: geograficamente Napoli (al di là dell’origine della persona dietro la giacchetta), musicalmente il neomelodico e la trap.
Fenomeni come il Gianni Celeste di “Senza e te nun pozz sta” sono diventati conosciuti in tutta Italia: da una parte osannati per motivi ignoti o riconducibili al gusto per il trash, dall'altra considerati alla stregua di latrare di cani. Difficilmente si prova a guardare alla musica neomelodica come quello che realmente è, una musica popolare nel senso autentico e non meramente estetico del termine, forse l’ultima vera musica popolare italiana. Ancora più raramente, spesso anche a Napoli almeno fino a qualche tempo fa, ci si rende conto che la galassia neomelodica è sensibilimente meno monolitica e monocromatica di quanto appaia nell’opinione comune.
Basti pensare alla produzione di uno dei capostipiti, Nino D’Angelo, che va da uno dei primi pezzi reggae in dialetto (“O’ Spiniell”, 1982) a quella “Senza giacca e cravatta” che nel 1999 lo consacrava come un artista ben diverso rispetto al biondino dei musicarelli anni ‘80. O più di recente Enzo Savastano, all’apparenza neomelodico tutto d’un pezzo, in realtà autore di arrembaggi all’immaginario da centro sociale (“Reggae neomelodico”) e del cantautorato indie (“Una canzone indie”, con tanto di videoclip parodia di Calcutta).

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Ma per capire la trasversalità di certi fenomeni, più che su Spotify o YouTube serve andare a qualche concerto. Concerti come quello con cui, pochi giorni fa, Nino D’Angelo ha festeggiato il suo 60esimo compleanno allo Stadio S. Paolo davanti a un pubblico eterogeneo e intergenerazionale. A dimostrazione che le barriere un tempo insormontabili fra musica “colta” e musica popolare contemporanea stanno progressivamente assottigliandosi e non solo per un atteggiamento post-ironico. Barriere che franano al suolo a concerti come quelli di Franco Ricciardi, un cantante di cui probabilmente avete sentito qualcosa, ma che sicuramente avreste rifuggito se ve lo foste trovati davanti più di vent’anni fa, quando le sue (comunque ottime) melodie erano accompagnate da capello phonato d’ordinanza e basi strumentali alla buona.

Vale la pena riassumerne l’ormai pluridecennale storia: dopo un inizio di carriera all’insegna del pop neomelodico, a fine anni ‘90 per il cantante di Scampia arrivano le prime collaborazioni imprevedibili: collabora con i 99 Posse nell’inno antirazzista “Cuore nero”; nello stesso periodo scrive anche “167” con Peppe Lanzetta, drammaturgo da sempre interessato alle periferie napoletane e fra gli artefici del “recupero” di alcuni artisti del mondo neomelodico, come quella Maria Nazionale che anni dopo è arrivata anche a Sanremo. La canzone prende il titolo viene dalla legge sull’edilizia popolare che ha dato a Scampia le celeberrime Vele. Si tratta di un grido di allarme sulla bomba a orologeria sociale che ticchettava da tempo in quelle zone senza lavoro e servizi pubblici, lanciato anni prima che le Vele assurgessero a simbolo internazionale di spaccio e criminalità.

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Negli anni zero, soprattutto a partire da “Zoom” del 2011, il passaggio definitivo a uno stile che incorpora elementi di rap, rock, elettronica, spesso e volentieri in un colpo solo. Su beat a base di chitarroni o synth spessissimi, Franco Ricciardi duetta con Jake La Furia, Luché, Clementino, dichiarando di essere cambiato molto rispetto al cantante di qualche lustro prima, ma senza mai rinnegare le sue origini o abbandonare del tutto il suo stile, che la fa da padrone in canzoni come “Parlame” con Maria Nazionale. Spesso è accompagnato dal fido Ivan Granatino, un giovane cantante di Aversa che ha un ruolo determinante nella sua nuova incarnazione. L’apoteosi di questo percorso è l’album “Figli e figliastri”, del 2014, dove Ricciardi reincide due sue classici del periodo neomelodico, “Treno” e “Prumesse mancate”, con arrangiamento e produzione completamente differenti e le strofe di, rispettivamente, Rocco HuntEnzo Dong; l’album contiene anche diversi brani inediti, fra cui almeno un paio di produzioni elettroniche di qualità, “Madama Blu” e “Uommene”.

“Uommene” ci rimanda al rapporto di Ricciardi con la pellicola: A storia e Maria”, con Ivan Granatino, compare attraverso l'autoradio nella prima scena di Gomorra la Serie, finendo al centro un dialogo fra Ciro l’Immortale e il suo mentore Attilio, momento che col senno di poi si rivelerà un moodsetter fondamentale per l’immaginario della fortunata serie. “Uommene” finirà invece nella seconda serie, mentre nel 2014 arriva il David di Donatello per la migliore canzone originale per “A verità, colonna sonora del film “Song e Napule”.

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("Prumesse mancate" nella versione originale e in quella con Enzo Dong)

Franco fonda anche un’etichetta, Cuorenero project, che terrà dentro tanto cantanti neomelodici dallo stile più tradizionale, tanto artisti figli della parte più ibrida, quella che ci interessa ora. In particolare uno che abbiamo già nominato, l’aversano Ivan Granatino. Qualcuno potrebbe ricordarlo anche per la sua avventura nel team J-Ax di The Voice nel 2014, stesso periodo in cui probabilmente lo avete sentito cantare in Gomorra la Serie. Comunque Ivan è in giro da un po’: viene dalla scena hip hop, ma ha uno stile cantato e parecchio melodico che viene da un’educazione musicale tutta partenopea.
Con queste premesse, il passo è breve per farne uno degli artisti che esemplifica meglio come, in questa città dalle strade così anguste, generi musicali diversissimi come il pop d’impronta neomelodica e il rap possano facilmente trovarsi ad essere vicini di casa, accomunati in fondo dall’essere musica vicina alla strada e al suo vissuto.
Il sodalizio con il veterano Franco Ricciardi è fondamentale per il percorso artistico di entrambi: al suo fianco Ivan collabora con alcuni dei nomi più grossi dell’hip hop napoletano e italiano. Ma anche nella sua produzione in proprio si dà da fare: prova arrangiamenti electro rock, collabora con Enzo Dong e Luché, partecipa a Sanremo Giovani con “Chapeau”, un pezzo che guarda più all’Italia che alla Campania, poi arriva sul palco del 1° maggio di Roma con Tullio De Piscopo. Da una paio d’anni cerca anche una sorta di via napoletana alla musica latina da radio, con un chiaro influsso neomelodico; detta così può far storcere il naso, ma pezzi come “Spuoglieme” o “Vicino e’ sentimente” con Ida Rendano, ad alcuni tormentoni internazionali o alle loro brutte copie napoletane, come si dice a Napoli nun s’e vedono proprio.
Discorso che non vale per alcune brutte copie napoletane, vedi il maldestro tentativo delle star neomelodiche Alessio e Tony Colombo di riciclarsi con “Acaricia mi cuerpo”.
Vale, invece, soprattutto per l'orecchiabile “‘A guagliona d’o core”, il recente singolo che ha anticipato l'uscita “Ingranaggi” e che al sound latino affianca più di una strizzata d’occhio alle sonorità trap.

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Granatino è uno di quelli che queste sonorità a Napoli le ha introdotte, mantenendo però come trademark un mood melodico e un po’ patinato, tutto a base di storie d’amore, al massimo di orgoglio partenopeo, e zero sparate gangsta. Provate a sentire “Baby”, di marzo 2016, e soprattutto “Sempe”, uscita pochi mesi fa, e potreste iniziare a capire l’inizio di queste accorate righe, perché in effetti qualcosa ricorda da vicino le canzoni, di poco successive o praticamente contemporanee, del misterioso eroe di “Nove Maggio”.

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Ivan è stato a lungo uno dei nomi più quotati al toto-Liberato, tanto da sentirsi in dovere di rispondere alle illazioni con una cover di “Nove Maggio”, “Liberato”, dove garantisce che “Granatino nun è maje stato Liberato”. Anche il mentore Ricciardi ha un disco uscito da poco, “Blu”, e un singolo di traino che suona molto trap pur tenendo in primo piano stile e personalità del titolare. “N’ata notte” è uno di quei brani che probabilmente sentiremo in Gomorra 3 (accanto a Liberato? Girano varie voci), e un altro di quei brani che testimoniano la natura mutante e adattabile di un certo stile parteonopeo.

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Il mondo della trap napoletana, ovviamente, va oltre e abbraccia una vasta gamma di nomi che nascono nel pieno del boom trap o poco prima, arrivandoci con voli meno pindarici di Ricciardi o Granatino e con risultati, se vogliamo, un po’ più scolastici.

Viene in mente per primo il già nominato Enzo Dong, anche lui esploso dopo che la sua “Secondigliano regna” è stata protagonista di una scena memorabile in Gomorra 2, anche se in “Higuain” ci tiene a precisare che non è grazie alla serie se lui spacca di più. Il rapper di Secondigliano viene dall’hip hop, ma si è avvicinato parecchio a suoni trap con le sue ultime produzioni, fra le quali dobbiamo sicuramente ricordare “Aldilà”, con la Dark Polo Gang.
Con le dovute differenze, l’immaginario di Enzo è molto più vicino a quello classico dell’hip hop stradaiolo o a quello della scena contemporanea, più che al romanticismo partenopeo che, ancora con le dovute ed enormi differenze, accomuna molto di quello di cui abbiamo parlato fino ad ora.
Questo vale per molti suoi colleghi della scena trap all’ombra del Vesuvio: pensiamo a Moderup, quelli di pezzi come “GTA Napl” o Lele Blade di “Pienzec buon”.

C’è qualche nome che sembra unire l’attitudine street a una particolare vocazione melodica che riflette quel senso di malinconia che è spesso presente nella filigrana della musica napoletana e che effettivamente si sposa bene con autotune e batterie 808. È il caso di Vale Lambo, nella crew Le Scimmie con Lele Blade, che a un ottimo flow accompagna pezzi di quell’immaginario che sembra riscuotere sempre più successo, come il bambino davani al San Paolo o le carrellate sul mare del video di "Maradona".

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È il caso anche dell’esordiente Christian Revo, ancora acerbo in alcuni pezzi, ma forse fra i più promettenti per il mood molto particolare che aleggia nei suoi brani più intimistici, rigorosamente in napoletano.

Sul versante più melodico sono sicuramente da citare anche CoCo e Livio Cori, forse quelli con la sensibilità pop più spiccata, anche grazie alla scelta di cantare/rappare in italiano, coraggiosa a Napoli ma che potrebbe pagare fuori. Nonostante nei suoi pezzi trapeli poco della sua provenienza, o forse proprio per questo, Livio Cori è un altro di quei nomi che ricorreva nelle teorie su Liberato.

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Il quadro della trap campana in italiano, per amor di completezza (che comunque non raggiungiamo), si chiude con una menzione a Farnetik, Cerebro Drunk e un altro pugno di nomi che stanno provando a sintetizzare una formula che tenga dentro le sonorità trap e un background emocore (“siamo trapper emo e trapperemo”).

Alla fine di questa carrellata, in realtà forse alla domanda iniziale si risponde facilmente.
La chiave del successo di Liberato sta (anche) nell’aver presentato una versione di Napoli e della sua musica contemporanea facile da capire anche per chi ne è a digiuno. La linea vocale con influenze neomelodiche ma senza esagerare, il testo in napoletano non troppo ostico, il melodramma romantico nel testo ma senza lo sviluppo della sceneggiata, solo poche frasi per accennare una storia universale in cui è facile riconoscersi e per tratteggiare un paesaggio geografico-culturale intrigante sia per chi va a Mergellina col miezu pacchettin’ che per gli altri.
A fare da scenario nei video di Francesco Lettieri, poi, una Napoli da cartolina ma radicata nella città reale, dove scenari da spot turistico si riempiono di vita vissuta e si alternano a sguardi sulla periferia, sui quartieri popolari e sulla popolazione locale. Si è parlato a tal proposito immaginario anti-Gomorra, e anche se potrebbe sembrare riduttivo ricadere nella banalizzazione Gomorra-non Gomorra, in questo caso può aiutare a far capire il tipo di immagine della città veicolata, volente o nolente, dai due videoclip.

Dall’altra parte che abbiamo? Testi generalmente più complessi linguisticamente e meno sintetici, lunghe strofe rappate o cantante con uno stile vicino al neomelodico; un immaginario molto meno leggibile fatto di storie d’amore ma anche di periferie, di vissuto non facile, di marginalità e abbandono sociale. A volte anche di una narrazione del mito criminale che è più racconto del reale che esaltazione, quella che i Co’Sang chiamavano poesia cruda, ma che non sempre è facile inquadrare o meno nella denuncia, soprattutto per chi quel mondo lo conosce solo attraverso giornali e televisione.

C’è chi vede quella di Liberato & co. come una banalizzazione di Napoli, un distillato di musica e lifestyle partenopeo alla Renzo Arbore, buono solo per non napoletani o chiattilli dei quartieri bene, fatto da loro e per loro, o magari una grande operazione pubblicitaria della Napoli liberata di De Magistris o della terza serie di Gomorra.
Dall’altro lato, c'è chi si è emozionato trovandoci una sintesi poetica, forse patinata, ma pur sempre poetica.

La forte spaccatura che si è avvertita sull’affaire Liberato è dovuta a questo, più che al merito delle canzoni.
C’è però una cosa da sottolineare: questa spaccatura di cui si diceva, si è avuta, e forse ha interessato, più gli addetti ai lavori e certi ascoltatori attenti alle ultime novità.
Chi sentiva il neomelodico probabilmente continua a sentirlo, spesso e volentieri nella versione 2.0 (o più) di Ricciardi o Granatino, senza sapere non solo chi è Liberato, ma anche che fa.
Chi segue la scena trap e hip hop locale avrà ascoltato i due brani, ma ci sono ottime chance che continui a interessarsi di più d’altro. Del resto, comparando le views su YouTube, Liberato, sebbene fenomeno più recente e in crescita, per ora come numeri resta in un campionato diverso.

La domanda però è quanto del campionato napoletano potrebbe arrivare oltre i confini natii e ricevere la stessa attenzione di prodotti locali relativamente più mainstream. La fase potrebbe essere propizia: Napoli è sempre più presente al cinema, in tv, in libreria, negli elenchi di mete turistiche gettonate, e per la musica forse il momento è giusto. Fenomeni come Gomorra e la sua colonna sonora hanno già fatto qualcosa in questo senso e forse anche Liberato potrebbe fare da traino, attirandosi magari l’approvazione pure dei critici più irriducibili.

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L'articolo Oltre Liberato: insospettabili neomelodici e trapper napoletani di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2017-07-07 11:32:00

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