OvO è il suono dell'ignoto

"Ignoto" è il nuovo album per Stefania Pedretti e Bruno Dorella, in cui suoni rarefatti e opprimenti lasciano spazio al cantato in italiano che trascina l'ascoltatore dentro l'orrore, l'esoterismo, il nero

OvO, foto di Sara Dresti
OvO, foto di Sara Dresti

Alla fine di una lunga chiacchierata con Bruno Dorella e Stefania Pedretti mi rendo conto di avere parlato quasi soltanto del presente, eppure - penso - ci starebbe bene anche un ricordo del passato, a partire dai Wolfango, dove Bruno suonava la batteria incuriosendo, tra molti, un Red Ronnie ancora non totalmente partito di testa in una puntata del Roxy Bar, passando per l'etichetta Bar La Muerte e arrivando alle Allun, dove Stefania torturava la chitarra, un violino, giocattoli e cibori vari.

Sapere almeno che ne è rimasto, che ricordi hanno lasciato. Bruno allora si stiracchia e sorride: “Se ci trovi una casa editrice – mi dice – ti prometto che pubblichiamo il libro necessario a esaurire la risposta a questa domanda. Abbiamo già il titolo: Fabulous Disaster”. Ricambio il sorriso, pensando al disco degli Exodus del 1989 con lo stesso titolo e che li pose definitivamente (e ingiustamente) fuori dai Big Four della scena thrash US: quando Andrea Pinketts parlava di senso della frase probabilmente si riferiva a una cosa del genere. Ma riavvolgiamo il nastro e ripartiamo dall'inizio.

Chi vi scrive ha incontrato la prima volta gli OvO più di quindici anni fa in Sicilia: era primavera inoltrata, che là vuol dire quasi estate, in un piccolo Circolo Culturale, che là vuol dire quasi CSO. Bruno e Stefania erano ancora una coppia e, oltre alla musica, condividevano la vita... e un appartamento non troppo vissuto vicino la Stazione di Milano. La situazione era abbastanza disagiata. Posta esattamente nel punto di contatto tra bizzarro e irreale. Il backstage era il bagno, dove entrarono loro e uscirono gli OvO, con un effetto visivo che non credo molto diverso dal primo spettacolo dei Kiss al Popcorn Club nel Queens.

 

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Il palco era un pavimento in cotto, antico, irregolare, scomodo, proprio davanti all'ingresso. Iniziano. Cappucci, tuniche, maschere, rumore, urla, pubblico che non sa bene come reagire e organizzatori che fissano preoccupati la porta nell'evenienza arrivi la signora Evelina del piano di sopra o, peggio, la polizia. Si potrebbe fare a gara, dico a ricordare la prima volta in cui ci si è imbattuti negli OvO. Per Luca Cavina dei Calibro 35 fu in un sottoscala in Emilia. Per Rossano Lo Mele dei Perturbazione a una Festa dell'Unità in Umbria. Per Francesco Farabegoli, una delle ultime firma che ho piacere leggere, “in un posto occupato e insieme a un sacco di altra gente prima e dopo di loro”, come si scopre dalla bella recensione che incorona Ignoto (Artoffact, 2022) album italiano del mese su Rumore.

Credo si potrebbe andare avanti (quasi) all'infinito, tra grottesco, naif e surreale. Ma non fraintendiamo. Ai tempi di Alles Wieder Offen, anni fa, Blixa Bargeld disse che i primi spettacoli degli Einstürzende Neubauten erano “solo una merda” e che tutto il resto era stato alimentato da una zona d'ombra di “qualcosa considerato oramai leggendario”. Superata la boa dei primi venti anni appare palese la crescita musicale, contenutistica e anche professionale degli OvO. Stefania annuisce: “Considerato che i nostri concerti erano improvvisazione noise totale, addirittura a formazione aperta a interventi esterni estemporanei, mentre ora tutto quel che facciamo è stabilito e l'improvvisazione sta allo 0,1%, possiamo capire il parallelismo con i Neubauten. Anche il lato performativo si è notevolmente ridotto.In vent'anni non possiamo che essere cambiati e migliorati, almeno secondo le nostre intenzioni e il nostro percorso. Siamo un po' meno istintivi, ma risultiamo sempre piuttosto inascoltabili alla maggior parte delle orecchie, quindi diremmo che siamo ancora lontani dall'imborghesimento e dal tecnicismo”.

Foto di Sara Dresti
Foto di Sara Dresti

Allora mi sembra di ricordare che in una vecchia intervista Bruno disse che gli OvO erano formati da due persone, con l'elemento dell'amore in più: 33% ciascuno ma quel 1% se lo teneva per lui essendo un suo progetto ma Bruno mi interrompe ironizzando: “Dubito avere detto che OvO sia un mio progetto, Stefania mi avrebbe strangolato per un'affermazione così... Sicuramente OvO è qualcosa che va al di là della musica e ha molto a che vedere con la relazione simbiotica tra me e Stefania. Anche se da molti anni non siamo più una coppia. Ma credo che quel 99% sia rimasto immutato”.

Eternamente apolidi (“Tra il 2001 e il 2003 abbiam vissuto al confine tra Italia e Francia, vicino Ventimiglia, dove passeur facevano sconfinare a piedi ogni tipo di fuggitivi”), negli ultimi anni hanno vissuto prima a Berlino e poi a Ravenna. Ora Stefania è rimasta a Ravenna e Bruno si è trasferito a Bruxelles. Il che non ha fatto che accrescere la loro nomea di ferventi sostenitori della vita on the road e soprattutto della teoria che il “musicista deve suonà” (nel loro caso anche oltre 150 date in un anno) senza stare a piangersi addosso o creare mille scuse (con o senza virgolette) per non farlo.

“Sì, siamo ancora della vecchia scuola, si suona per suonare dal vivo - confermano -  Gli anni in cui eravamo a Imperia sono stati i più duri perché era troppo presto per isolarsi così tanto, eravamo troppo giovani e ancora poco conosciuti. Quindi abbiamo avuto un calo dei concerti, ed era anche costoso spostarsi. Ora è diverso. Persino durante il Covid abbiamo suonato meno ma abbiamo suonato, e in condizioni surreali di gente contingentata, mascherata e seduta. Abbiamo profondo rispetto per chi è venuto a quei concerti e per chi ce li ha organizzati, perché questa è vera dedizione. Talvolta capitava che l'Italia fosse chiusa e altre nazioni no, quindi riuscivamo a infilarci in qualche modo altrove. Ricordiamo ancora l'emozione del primo concerto con la gente in piedi e senza mascherine, in Danimarca. Sappiamo che molte band hanno scelto all'epoca di non suonare in quelle condizioni rimaneggiate, e rispettiamo la loro posizione ma per noi era fuori questione. Noi suoniamo”.

Ignoto, l'ultimo album, uscito il giorno del nuovo atteso Verdena (“Non è un problema. Sono pubblici diversi, e quelli che seguono entrambi probabilmente sono abbastanza attenti da aver intercettato entrambe le uscite”, commentano) e, rispetto al passato, fin dal titolo, si presenta come un salto nel vuoto prima di tutto per loro stessi. Nemmeno Abisso (2013, Supernatural Cat) era così caratterizzante ed evocativo. Due sole tracce di lunga durata, il cantato in italiano e di senso compiuto (a differenza dei Verdena), le influenze letterarie a dir poco impegnative, ancora più importante la componente elettronica, il doom che diventa sludge e lo sludge che diventa black, sembra che l'intero immaginario dell'album sia basato su uno scavo nelle viscere della loro stessa musica ed essenza.

“Hai ragione, Ignoto è il più pazzo salto nel vuoto dai tempi di Abisso. Non sapevamo che reazioni avrebbe creato e siamo quasi stupiti che stia piacendo così tanto. Tutti gli elementi che hai citato sono estremamente presenti, nel senso che caratterizzano fortemente l'opera. La nostra musica è sempre stata viscerale, non abbiamo mai pianificato nessuna svolta pop, e anche stavolta abbiamo fatto quello che ci hanno suggerito le interiora. Ciecamente fedeli allo stomaco”.

Il cantato comprensibile ha tirato fuori il lato più esoterico e horrorifico di Stefania, senza perdere il fascino del vedo/non vedo, capisco/non capisco e quindi ne sono attratto per quel velo di mistero che piace persino a Dargen D'amico figuratevi a noi altri, campioni indoor di pippe mentali. “Vedremo quando lo suoneremo per intero ai prossimi live. Per ora la percentuale di italiano è circa il 50%, resta ancora una buona metà in stefaniese. All'estero non si pongono il problema. Non capivano prima e non capiscono adesso. Ma crediamo percepiscano l'intensità del testo”.

Foto di Sara Dresti
Foto di Sara Dresti

In un momento storico in cui pure mia madre fa i featuring, Ignoto ha i crediti più corti del creato (fatta eccezione per Giulio “Ragno” Favero al mixer), a differenza di un passato fatto invece di numerose (numerosissime, fatico a ricordarle tutte) collaborazioni, il che mi fa pensare ancora di più a una visione autarchica del progetto stesso. “In gran parte la cosa è dovuta al fatto che Bruno ha approfondito la produzione elettronica negli ultimi anni - spiega Stefania - E' in grado di coprire quegli spettri sonori per i quali prima chiedevamo la partecipazione di maestri dell'elettronica come Rico o Bernocchi. Sicuramente i feat. torneranno in futuro, ma questo è un disco nato in lockdown, suonando insieme, intimo. Senza impronte esterne”.

Concretizzando, a suo modo, Ignoto ha un forte senso di opposizione all’omologazione sociale, questa volta anche da un punto di vista della durata delle tracce, 20 minuti l'una. Palesemente anti-radiofoniche (chissà se un Gustavo Tagliaferri nella sua trasmissione, magari...). Possiamo quindi considerarlo un atto politico, travalicando i contenuti prettamente musicali, ponendosi come critica sociale al mediume imperante. Bruno allora approva, seppure smorzando un po' il mio fervore idealista: “Eravamo consapevoli di andare controcorrente, ma è anche vero che qualsiasi mezzo influenza la musica. Abbiamo dovuto accorciare i pezzi per farli stare su un lato del vinile, perché volevamo fare il vinile. Abbiamo dovuto tagliuzzarli per la fruizione sulle piattaforme, cosicché su CD e Lp si hanno due tracce uniche, mentre in digitale ogni traccia è suddivisa in quattro parti. Ci si muove ai confini e negli interstizi del mercato, sempre con consapevolezza politica, ma ci si è sempre dentro, seppure con orgogliosa marginalità”.

Mi viene allora da chiedergli come si rapportino gli OvO alla deriva di tutto, come si rapportano all'idea che oramai da una parte c'è l'esasperazione di tutto (l'altra sera ho scoperto che i Meshuggah fanno djent - voi lo sapevate? per me facevano metal...) dall'altra la negazione del tutto (per dire, i font death e black usati per la trap o le serate tamarre). “Non ci offende – mi dicono - ci stiamo in mezzo. A un metallaro degli anni '80 avrebbe fatto lo stesso effetto la parola sludge, ti avrebbe detto che è doom. Il mondo va avanti”.

 

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I MAGNIFICI 3. Che hanno caratterizzato la sterminata discografia degli OvO.

Miastenia (2006, Load)
Sono molte le etichette con le quali si sono legati gli OvO dopo il sodalizio con Bar La Muerte di Bruno Dorella. Miastenia è il primo a uscire per la Load Records di Providence, l'etichetta che ha regalato al mondo i Lighting Bolt. La crudezza porosa, la tensione accumulata dalla batteria, la voce luciferina non hanno nulla da invidiare ai migliori dischi di Unsane, Swans o Melt Banana.

Abisso (2013, Supernatural Cat)
Dopo il rodaggio di Cor Cordium, il punto più alto raggiunto dal sodalizio con l'etichetta di Malleus e Ufomammut. La scena noise-ritualistica italiana difficilmente è stata rappresentata così al meglio, tant'è che trova facilmente il supporto di Alan Dubin dei Khanate e Carla Bozulich. Roba massiccia, tribale ed epilettica ma capace di prendersi le sue pause spirituali e magmatiche senza stonare.

Ignoto (2022, Artoffact)
Un'ulteriore passo sulla linea della propria storia. Senza mollare la follia dei primi capitoli o il peso degli ultimi, si danno con sicurezza all'uso di suoni più in divenire ma non per questo più rarefatti o meno opprimenti. Il canto comprensibile per metà ha espande le emozioni in una lenta esplosione di alcuni minuti. L'idea è di vedere davanti a loro una nuova strada da esplorare coi propri modi.

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L'articolo OvO è il suono dell'ignoto di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2022-10-07 16:03:00

Tag: album

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