Paolo Baldini - Il lavoro del produttore

Ha curato gli ultimi due album dei Tre Allegri Ragazzi Morti, ma soprattutto, è produttore di punta per il reggae in Italia. Paolo Baldini è un personaggio affascinante, capace di tenerti per ore a raccontarti di un suono e della storia che quel suono ha alle spalle. Si parla di reggae e di tutte le
Ha curato gli ultimi due album dei Tre Allegri Ragazzi Morti, ma soprattutto, è produttore di punta per il reggae in Italia. Paolo Baldini è un personaggio affascinante, capace di tenerti per ore a raccontarti di un suono e della storia che quel suono ha alle spalle. Si parla di reggae e di tutte le - Foto di Mattia Balsamini

Ha curato gli ultimi due album dei Tre Allegri Ragazzi Morti, ma soprattutto, è il produttore di punta per il reggae in Italia. Paolo Baldini è un personaggio affascinante, capace di tenerti per ore a raccontarti di un suono e della storia che quel suono ha alle spalle. Si parla di reggae e di tutte le sue forme, dal roots fino alla dubstep. Del reggae italiano e di quello nato in Italia ma che si ascolta nel mondo. Del reggae che nasce in Giamaica e si ascolta solo lì. Di Alborosie e degli Africa Unite, e di tutti gli altri. Sandro Giorello l'ha intervistato. 

La parte più importante del tuo lavoro è convincere la band a seguire un'unica direzione?
La parte più importante del mio lavoro, secondo me, è: avere sufficiente empatia e sensibilità per capire - uso il termine capire per quanto vasto possa essere - che cosa sia meglio per la band. Non è poco. Non mi riferisco a cose pratiche, è molto metafisica questa visione, questa presunta capacità. Ma è importante, ti permette di immaginare il vestito per quel soggetto e, di conseguenza, trovare anche la direzione che dovrà seguire. Altrimenti la band oggi non ha necessariamente ha bisogno di un produttore, gli basta andare in studio, scegliere un fonico preparato, e decidersi su cosa registrare.

Hai un metodo? Che ne so, prima la sezione ritmica, poi i bassi, le partiture dei fiati...
In questo senso no. Il mio metodo è di focalizzare intorno all'artista una determinata visione, in virtù di quella possiamo prendere diverse strade. Poi il viaggio ci può portare anche molto lontano... mi sento libero e flessibile, smart, nei confronti del progetto. Ma un punto di partenza mi serve, soprattutto per capire se io e la band abbiamo una visione sovrapponibile.

È tuo compito cogliere le potenzialità di una band e spingerle al massimo?
Può anche essere, ma calcola che la band comincia già dal suo massimo: prima di arrivare da te la band si è spremuta, ha usato tutto il tempo che aveva per realizzare la canzone e la sua visione del pezzo. Loro hanno dato il massimo per arrivare a quel determinato punto, il tuo compito è portarli ad un punto superiore. E puoi farlo perché sei al di sopra di loro, a prescindere dal tuo talento: tu non fai parte di quel gruppo, un batterista non avrà mai una visione obiettiva, sarà sempre condizionato dal suo ruolo. È da lì che vengono fuori le barzellette sui batteristi. (sorride, NdA)

Raccontacene una...
Non sono molto bravo a raccontarle. Però conosco tantissimi batteristi e so - e qui mi tirerò addosso l'odio di molti di loro - che hanno una visione d'insieme molto schematica. È quello più cocciuto del gruppo, insomma.

(Steela)

Il reggae ha dei connotati molto definiti. Pur sapendo di sbagliare, ti direi che è tutto uguale. Se i Lacuna Coil o, che no so, i Negrita portano un provino da un produttore, questo avrà moltissimi modi per arrangiarlo. Per te è lo stesso? Che siano gli Steela, i Mellow Mood o i Muiravale Freetown.
Ti posso rispondere provocatoriamente che i Lacuna Coil e i Negrita potrebbero avere lo stesso produttore pur facendo cose diversissime. Ci sono molte differenze di arrangiamenti ma, soprattutto, è fondamentale capire che hanno una differente capacità di scrittura. Banalmente potresti considerarli due progetti rock ma capisci che alla base ci sono due modi di scrivere diversi. Stessa cosa vale per le band che seguo io. Ad esempio: gli Steela sono forse il gruppo che aveva la idee più chiare su quanto voleva realizzare. Gli Steela sono una band “benedetta” in un certo senso, perché non sono troppo numerosi, sono tutte teste pensanti, tutte miracolosamente sincroniche, cosa difficilissima in una band. Nel reggae è un classico che ci sia una personalità più trainante, e questo nella composizione lo senti. Gli Steela invece sono decisamente più eclettici, spaziano tra i generi, hanno fatto il primo disco reggae, poi si sono spostati su altro e ad oggi la loro evoluzione non si è ancora fermata.

Quindi, sostanzialmente, non ci sono differenze?
Ti dico una cosa che potrebbe aiutarti a capire il ruolo di un produttore reggae: il reggae come matrice musicale educa chi lo suona ad una totale consapevolezza della griglia ritmica. Nel reggae c'è una visione quasi chirurgica e maniacale dell'incastro, per le assenze di note, le pause, i vuoti, il levare, i cambi di accento, i bassi che non sai mai quando arrivano e si interrompono quando meno te lo aspetti. Ecco, questa cosa tu riesci a farla solo ed esclusivamente se chi suona si misura in modo totale sulla poliritmia. Io non penso che ci sia una matrice musicale migliore di altre, però il reggae è molto educativo da questo punto di vista: i bassisti e i batteristi reggae hanno un qualcosa che è difficilmente imitabile dagli altri e lo noti, come nel caso degli Steela, quando poi si cimentano anche in altri generi. I produttori devono saper sfruttare questa esecuzione musicale, si avvalgono del mix in modo assolutamente creativo e questo fa la differenza. Intervenendo in tempo reale sulle singole tracce degli strumenti, il missaggio diventa un'operazione del tutto dinamica e musicale: mi muovo molto sul mixer, tolgo le tracce, metto le tracce, cambio equalizzazione. È un modo di pensare il mix che non esiste negli altri generi musicali.


Solo per non fare confusione, ora mi hai raccontato come nasce una dub version – su youtube ci sono molti video dove lo spieghi, devo dire che sono decisamente affascinanti – o quest'uso creativo del mix c'è per ogni tipo di brano reggae?
È il reggae. Devi sapere che tutto questo è nato non perché i giamaicani siano stati più intelligenti di altri, anzi, ma perchè negli anni in cui questo genere è nato non c'erano soldi. Parlo della fine degli anni '60 e tutti gli anni '70...

...c'era questa figura del dj che aveva a disposizione diverse basi strumentali, le metteva su un giradischi e cercava di adattarle - stoppandole, equalizzandole, rimettendole da capo - al fine di seguire la melodia di chi stava cantando in quel momento?
Esattamente. Non chiamiamolo dj, chiamiamolo dub master. Diciamo che le persone che iniziarono questa epopea musicale furono veramente poche, erano operatori che gravitavano intorno a determinati studi, disponevano delle tracce separate di determinati riddim (la base strumentale di un pezzo reggae, NdR) sui quali poi i cantanti si cimentavano per fare i loro dischi. Questa creatività nacque da un'esigenza: l'economia nell'isola non permetteva a un cantante di realizzare il suo disco disponendo di basi esclusive, ma doveva adattarsi a basi che erano state cantante anche da altri, quindi queste basi venivano in qualche modo modificate in tempo reale da questi operatori, per adattare meglio la base alla canzone che stava cantando. Di necessità virtù: la mancanza di mezzi ha fatto in modo che i produttori usassero fino all'ultima goccia le risorse che avevano.

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Ti faccio una domanda che magari è ovvia, e magari no. Per una band giovane che inizia a suonare oggi, il roots è parente ingombrate a cui si deve un confronto obbligato o, al contrario, una base utile che ti aiuta a partire con il piede giusto?
Beh, è come se uno votato al rock si trovasse a disquisire di new metal con persone che non sanno chi sono i Led Zeppelin.

Ok, avevo precisato che poteva essere una domanda stupida.
Ma non intendevo quello... (ride, NdA)

Mi spiego meglio, se oggi riprendo in mano un masterpiece della mia adolescenza, “Inna Heights” di Buju Banton (1997) e dopo ascolto dopo delle ultime band dche hai prodotto, i Muiravale Freetown, mi viene da dire che, tolti i dovuti distinguo di bravura e di talento, il genere non è poi così cambiato dopo vent'anni.
La prendo come un complimento, non so se me lo merito però. Le foundation, il roots...

...ovviamente è un errore definire roots, un disco del '97, me ne rendo conto.
Ho capito perfettamente cosa dici. Quel disco era successivo al cambiamento di rotta ideologica di Buju Banton. Lui parte come dj e si avvale di tutte le liriche slackness, scurrili e volgari, per fare la sua carriera da diciassettenne. Poi, agli inizi dei '90, si converte e diventa rastafariano. E questa cosa in quel periodo l'hanno fatta in molti, un po' per vocazione, un po' per scelta di comodo. Diciamo che nel '97 Banton poteva decidere di fare un pezzo roots come uno dancehall, l'importante era conoscere le proprie radici musicali.
Ora - e non so se in questo modo rispondo alla tua domanda - mi piacerebbe che il reggae fosse considerato in tutte le sfumature che può offrire: dal nyabinghi, dal roots quasi bluebeat-rockstedy, fino alla dubstep, passando dal dub più digitale e minimale. Da quando mi sono innamorato di questa musica ho cercato in modo molto bulimico di nutrirmi di tutte le sue possibilità, ci trovavo un'idea di continuità. Ti do un consiglio - così, tanto per dartelo - diffida sempre da chi amando un genere, si specializza solo in quel genere. Io mi sento particolarmente poliglotta, lavoro con gruppi che vanno dal movimento dei sound system a chi si esprime nella dub inglese, mi piace la dancehall e tutte le sfumature possibili del raggae. Mi capita spesso di vedere quelli innamorati della dancehall che si annoiano ad una serata dub, quelli che si chiudono nel circuiti dub tendono ad essere schizzinosi verso il reggae classico dove si parla d'amore, di donne ecc. Sono cose che mi fanno sorridere perché esistono soprattutto in Italia, conoscendo come si esprime questa musica in tutto il mondo ti posso dire che certi radicalismi si manifestano laddove c'è più insicurezza. Per cui, io tendo a diffidare.

C'è insicurezza perché abbiamo una cultura relativamente giovane?
No, la cultura reggae italiana è di tutto rispetto. Io penso semplicemente sia l'atteggiamento cattolico degli italiani, è una cosa un po' diversa. (sorride, NdA)

Si può dire che nei '90 il reggae italiano diventa decisamente solido, come se avesse ridisegnato i suoi connotati creando un genere ben preciso.
Ci sono stati degli episodi incredibili, anche di risonanza europea. Se ti ricordi nel '94 gli Almamegretta...

...certo, le collaborazioni con Massive Attack.
Esatto.

Rimanendo invece in Italia. Ti dico l'idea che mi sono fatto su uno dei motivi per cui il reggae si è radicato così tanto nel nostro paese.
Spara.

Ha un linguaggio molto simile ad un altro entrato prepotentemente nel nostro DNA, la dance. Se ci pensi le tastiere di certi pezzi dub ricordano molto la musica da discoteca commerciale anni '90.
Probabile, certo. Ti posso dare la mia interpretazione, io ho iniziato in quel momento lì '90-'91. Adesso ho 38 anni, negli anni '90 ero un ragazzino con un appetito musicale notevole, mi sparavo tutti i concerti che potevo vedere, Africa Unite, Radici nel cemento, Radio rebelde, i primi Sud Sound System, i primi 99 Posse che avevano già una certa familiarità con il reggae. E il reggae parlava in italiano, in quegli anni si riscoprì l'Italiano e con lui una certa identità locale. E la tua identità era rafforzata non solo dal sentirti italiano, ma del sentirti salentino, o napoletano, ecc ecc. La musica in generale, stava vivendo un periodo di crossover intellettuale e questo contribuì a creare un movimento reggae coloratissimo, molto bello.

Quando è avvenuto il cambio generazionale e siamo arrivati ad avere gruppi come i Mellow Mood?
Ad un certo punto il reggae internazionale era diventato troppo seduttivo, era cresciuto tantissimo. Gli anni in cui i Reggae National Tickets smisero e Stena partì in esilio per la Giamaica si interruppe quella magia lì. Ovviamente non è colpa dei Reggae National Tickets (ride, NdA) ma è un buon esempio, sono un buon termometro di questo cambiamento: il '90 che finisce e il 2000 che inizia, e il reggae internazionale viene colpito da un'esplosione incredibile e incontenibile.
Ad un certo punto scopri che ci sono ragazzini che cominciano ad ascoltare reggae e, un po' grazie a internet un po' grazie alla libertà con la quale un ragazzino impara l'inglese e il patois, si connettono ad altri ragazzini delle stessa età sparsi per il mondo. Imparano a conoscere la musica attraverso un circuito che non è più quello discografico. Scopri che ci sono ragazzini così anche a San Vito di Pordenone che diventeranno poi i Mellow Mood e che da subito scrivono delle canzoni in patois con una padronanza incredibile.

Siamo competitivi con l'estero?
Siamo super competitivi.

(Mellow Mood)

Spesso ho letto nelle tue interviste che per te è importante rimanere a lavorare a Pordenone. Lo domanda, però, è d'obbligo: per un progetto reggae è necessario seguire l'esempio di Alborosie e lasciare l'Italia? (Fermo restando che se arrivi a vincere il MOBO – il premio più importante dedicato alla musica black - hai talento e punto).
Io conoscevo Stena prima e conosco Alborosie adesso. Posso dirti che Alborosie in questo momento è il più bravo: è il più bravo a organizzare il reggae in senso musicale, è quello che scrive le hit, che produce i dischi nel modo migliore, che li fa suonare di più. È riuscito a rendere pop la memoria storica del reggae, sta facendo conoscere ad una generazione di nuovi giamaicani il roots giamaicano.

E come fa un italiano a insegnare le radici dei giamaicani ai giamaicani?
Il reggae è una musica popolare, in Giamaica lo è sempre stato e lo è ancora. I connotati odierni di questa musica sono molto diversi da quelli degli anni '70, quando è diventata famosa nel mondo insieme a Marley, ecc ecc. Era una musica di protesta, era una musica di liberazione, era una musica che aveva un certo tipo di testi. Oggigiorno in Giamaica c'è un po' di tutto e, soprattutto, il tono ideologico nella musica dancehall è diverso. Diciamo un po' frivolo, si cantano di beni di consumo, umani e no, di un'attitudine che ricorda il classico gansta americano, ecc ecc. E soprattutto le radio non trasmettono un certo tipo di reggae, quello più familiare per noi europei. Infatti capita spesso che alcuni giamaicani adattino il loro repertorio rispetto a cosa piace in Europa. In Giamaica non si fanno molti concerti, se sei un artista e vuoi far successo devi puntare all'Europa, altrimenti non c'è motivo che tu esca dall'isola. Questo giusto per spiegarti che il reggae che si ascolta oggi in Giamaica è molto diverso, più futuristico, di quello che ci immaginiamo noi. Non è una cosa da poco, quindi, che Alborosie stia avendo successo riproponendo un genere che sull'Isola era quasi totalmente sparito. Poi - per rispondere alla tua domanda - assolutamente no, io non sono mai andato lavorare in Giamaica, non è necessario lasciare l'Italia per fare reggae.

Siamo in chiusura e ti devo fare un po' di domande veloci. Cosa ne pensi dell'mp3?
Stai parlando con un dinosauro, in un certo senso. Se pensi che, a mio avviso, abbiamo già perso tantissimo passando dal nastro analogico alla registrazione in digitale. L’mp3 è una merda, io in casa non ho niente in mp3. Ma non è solo la conversione qualitativamente inferiore, è il tipo di fruizione: ci sono ci sono ragazzini con la foga di ascoltare il pezzo subito, appena pubblicato, direttamente dalle casse del laptop e senza nemmeno mettersi le cuffie.

Da produttore, com'è lavorare con una personalità forte come Madaski?
Eh beh, insomma, esattamente come te lo puoi immaginare (ride, NdA). Ci sono degli amorevoli scontri, diciamo. Siamo due persone che si vogliono bene e che amano fortemente quello che fanno, se stessi, e le proprie proiezioni. Mettere tutto questo dentro un disco significa trovare il modo affinché le due creatività restino insieme senza esplodere. È molto bello lavorare con lui, ormai ci ho fatto l’abitudine ma cerco di non dimenticare quanto gli devo, sia prima, quando non ci conoscevamo, sia dopo, quando sono entrato nel gruppo e mi ha investito di tutte le responsabilità che ho oggi.

(Africa Unite)

Qual è la migliore qualità degli Africa Unite?
È nella sinergia tra Bunna e Madaski, ci sono episodi della loro carriera dove hanno sintetizzato cose bellissime. Prendi “Un sole che brucia”, è un disco che se lo ascolti è molto anni '90, ma è un disco indie dal peso mainstream, e il livello di scrittura è veramente notevole.

La miglior qualità dei Mellow Mood?
Io li li ho scoperti che avevano sedici anni e, purtroppo, erano già così (ride, NdA). Ho solo fiutato una crescita, ma era già evidente all'epoca che avevano talento. Il meglio possono dimostrartelo durante un concerto davanti a migliaia di persone, oppure nel salotto di casa tua, uno a caso dei due gemelli prende una chitarra acustica e fa accadere quello che deve accadere. Quella magia lì è veramente rara.

La miglior qualità dei Tre Allegri Ragazzi Morti?
Mi hanno fatto scoprire che certe cose esistono veramente. Quand’ero ragazzino fantasticavo sulle band come gli U2 dove ogni singolo componente è un'entità a sé. La credevo una cosa utopistica mentre i Tre Allegri mi hanno dimostrato che può davvero esistere un gruppo così. Sono tre personalità veramente incredibili, anche se fossero stati separati alla nascita e sparpagliati in giro in Europa si sarebbero incontrati lo stesso. Poi i testi di Davide sono stati i soli a mettere in dubbio la mia esterofilia per quanto concerne la lingua italiana in musica.

Che importanza dai al testo? Per alcuni produttori è la prima cosa da cui partire.
Per me no, produco quasi sempre musica in inglese e credo che ci siano delle differenze enormi in base a quale lingua una band decida di usare. Se sceglie l'italiano divento pignolo ai limiti della sopportazione: se non mi piace quello che dice, quasi sempre, ci sono degli scontri. È problematico per me produrre gruppi in lingua italiana, se uno non ha un cazzo da dire è meglio che lo dica in inglese.

(Tre Allegri Ragazzi Morti)

Il confronto con il pubblico lo metti sempre in conto quando produci una band?
Calcolare troppo le mosse del pubblico fa di te uno stupido.

Sei il primo produttore a dirmi che l'ascoltatore non è importante. Però, scusami, allora la descrizione di Alborosie come “quello che scrive le hit” come la devo intendere?
Come ti dicevo, solo Dio sa cos’è successo ad Alberto per trasformarsi in quello che è oggi, e ringrazio il medesimo per averlo permesso (ride, NdA). Io voglio pensare che Alberto scriva le canzoni che gli piacciono e che queste, contemporaneamente, piacciono anche al mondo. Punto. In tutti gli altri casi aborro l’idea che ci sia qualcuno che decide a tavolino i connotati di una hit. Tutte quelle band che stanno troppo sulla proiezione di cosa va adesso o di come il pubblico possa accogliere il loro lavoro perdono tempo, saranno sempre in ritardo. Viene fuori Skrillex e tutti cercano di costruire il sound di Skrillex, ma hanno già perso. Io dico al gruppo “devi fare quello che ti piace”. Poi c'è una selezione darwiniana per cui se fai quello che ti piace e non funziona, tu, mi spiace, non funzioni. Essere comunicativi, avere un'arte da esternare, non son cose che puoi imparare. Poi, certo, so che dall'altra parte della cornetta c'è qualcuno e la consapevolezza che c'è influirà sul mio operato. Però se di emozioni parliamo, a cuore aperto, io devo offrire a quello dall'altro capo del filo qualcosa di vero. Se no non gli sto offrendo niente.

Ti piace il dubstep?
Mi piace molto, ma non ne sono rapito come i tanti che ci sono finiti sotto senza conoscere i generi da cui deriva. Capisco perfettamente il tipo di rivoluzione che ha messo in moto, ha rubato spettatori alla dance e ha convertito la potenza del rock. Ha un'energia notevole, forse la prima cosa vera che succede dopo la jungle di inizio anni 90. Mi piace molto la prima ondata, quella di Kode 9, le sperimentazioni di The Bug, cose più british come Space Ape. E mi piace anche quando si passa all'ambient, vedi Burial.

Miglior gruppo dub italiano?
Come producer Dub Terror, Simone Lombardi, un ragazzo di Torino che de tempo vive in Inghilterra. Come band i Dub Cluster.

Ultima, il miglior gruppo ska italiano?
I Bluebeaters degli esordi sono stati tra i migliori al mondo a riproporre quell'archetipo dello ska. Io so per certo che il batterista degli Skatalites lo disse una decina d’anni fa: ci sono solo due band che suonano meglio della mia, una è giapponese, l'altra sono i Bluebeaters.
 

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L'articolo Paolo Baldini - Il lavoro del produttore di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2014-01-20 00:00:00

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