Abbiamo chiesto ad Enrico Gabrielli di analizzare le canzoni del Festival di Sanremo

Cliché, produzione e scrittura di questo Sanremo appena trascorso, analizzati da Enrico Gabrielli

Sanremo 2017
Sanremo 2017
13/02/2017 - 10:38 Scritto da Enrico Gabrielli

Enrico Gabrielli, oltre a militare in molte band fondamentali per la musica italiana (Afterhours e Calibro 35, solo per nominare i più noti), ha una lunga esperienza come compositore e arrangiatore, derivata dai suoi studi accademici. Avendo calcato anche il palco di Sanremo nel 2009, ci è sembrata la persona più adatta a cui chiedere una disamina delle canzoni sanremesi. Gli avevamo fatto una domanda molto semplice: descrivici da un punto di vista tecnico la canzone più bella e quella più brutta di Sanremo 2017. Dopo essersi sottoposto alla visione delle prime due serate, non solo ha risposto al nostro quesito, ma ha anche individuato alcune caratteristiche comuni a tutti (o quasi) i brani di Sanremo, che offrono molti spunti per capire se Sanremo può considerarsi ancora uno specchio degli ascolti degli italiani, o se non sarebbe forse il caso di rivederne la formula dopo 67 anni.

Mi è stato chiesto di valutare, dal punto di vista tecnico, la canzone migliore e la peggiore in gara tra i Big di questa edizione del Festival di Sanremo. Una richiesta del genere ha innescato in me, più che il lato squisitamente musicale, quello scientifico e sociologico. Soprattutto dopo l'eliminazione di una delle poche canzoni che mi parevano francamente decenti, "Nel mare ci sono i coccodrilli" di Braschi.
Il settore di applicazione si è ampliato fino al punto di essere arrivato a un irrisolto, a un vicolo cieco. Il perché è complicato ma cerco di spiegarlo in parole semplici: questa kermesse anziché svagarmi e darmi delle risposte, mi fa venire in mente un sacco di domande complicate. Un po' come per la religione: se non vuoi avere troppi problemi con la faccenda di Dio basta crederci e praticare la confessione in modo spensierato. Sennò fai come il classico laico che pensa a Dio di continuo.

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Spesso gli artisti che son saliti sul palco (anzi palchetto, grande quanto un salottino di quelli piccoli) cantano canzoni che, se in quel momento stai facendo una cosa in cucina, percepisci come del silenzio colorato. È un fenomeno tipico di Sanremo, quello delle canzoni che agiscono sull'attenzione a maglie larghe perché evidentemente sono talmente innocue da non occupare alcuno spazio sonoro. Insomma, spesso non sanno davvero di un cazzo.
M'è successo l'altra sera infatti che mi è sfuggita una manciata di sale nella pasta con l'idea di insaporire almeno uno dei sensi disponibili, visto che l'udito era ipostimolato.

Lanciato verso un'eroica visione delle prime due serate, ho cominciato a pensare ai cliché della scrittura musicale di questo festival. E son partite una raffica di domande nella mia testa:

1. perché metà delle canzoni hanno l'inizio pianistico malinconico? Sembrano tutti dentro a un film di Ozpetek o di qualche altro film di cinemaccio italiano;
2. perché metà delle canzoni hanno il cantato sottovoce all'inizio? Fanno pensare al Repetto di "Zucchero Filato Nero" e a quelle metriche anni '90 quando in Italia nessuno sapeva fare rap, ma ci provavano;
3. perché poi l'esplosione del ritornello dopo un inizio sottovoce? Vero problema di bipolarismo del soggetto cantante che evidentemente a Sanremo non è stato mai superato;
4. perché l'insistenza delle melodie su poche note? È l'ultima moda nell'ipotesi della "memorizzabilità", dove magari il tema sono solo tre note che girano con la convinzione che faccia un po' Morricone e un po' che "meno note ci sono, più è facile da imparare". Secondo questa teoria Richard Wagner avrebbe decisamente perso il suo tempo.
5. cosa sono questi drammi emotivi senza minima capacità di empatia? Vedi uno che canta disperato qualcosa che non afferri e ti sorge la domanda "ma di che minchia parla 'sta canzone?", quando ormai è troppo tardi.



In questo ginepraio di domande, la migliore canzone in quanto scrittura armonica e computo di settime e accordi di none, è quella di Gigi d'Alessio. Ha una forma vecchia, quasi adatta a un Nino "Caschetto biondo" D'angelo, dove l'orchestra fa proprio l'orchestra e il cantante si giostra la voce su un ghirigori di cazzi armonici. Addirittura direi che siamo in odore di Baglioni; basterebbe metterci un pizzico di edonismo, un po' di parrocchia in meno e qualche pronome in più (che ne so, un "Noi" al posto di "Dio") che l'effetto sarebbe garantito. A mio avviso, da quel punto di vista, se la gioca con la canzone di Al Bano, unica presenza "floreale" (almeno nel titolo) in un festival scevro da qualsiasi traccia di flora sul palco. È una specie di aria d'opera verista, tipo di Leoncavallo o di un Mascagni meno ispirato.

Se penso ad Al Bano non riesco a non pensare a Manuel Agnelli in stanza d'albergo dopo la performance degli Afterhours a Sanremo 2009 che si mise a fare discorsi sul talento professionale nella resa canora in diretta di quell'uomo. Diceva cose tipo "c'è da imparare" o "alzare l'asticella del challenge" e noi tutti a sedere in questo broccato verde, ascoltavamo seriamente, accondiscendenti. Ma ripensandoci era un clash culturale senza senso: come un magistrato del Tribunale di Milano che dice che c'è "da imparare" dalle sentenze di Santi Licheri. E tra l'altro quest'anno Al Bano cantava che sembrava sul punto di sciupare come il cinese di "Grosso guaio a Chinatown".
Ecco però la domanda delle domande: cos'è che rende una canzone valida rispetto a un'altra? La risposta non c'è, si sa, è come chiedere a Licio Gelli (guerra all'anima sua) che è successo a Bologna il 2 agosto 1980? Non c'è verso di saperlo. Rassegnamoci.

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Per quel che mi riguarda però la più brutta canzone di Sanremo, non considerando solamente la questione musicale, è quella di Gigi D'Alessio. Mi fa schifo l'idea di uno che si rivolge in alto, alle stelle, a Dio, al cielo bla, bla, bla per risolvere i cazzi propri in terra usando il mezzo antico e vetusto di una canzone. Non vale tirar fuori certi argomenti: è patetismo ipocrita e dilettante, è una spalmata maleodorante di facile sentimentalismo. Sì, non vi sto prendendo per i fondelli: la stessa migliore canzone in quanto a scrittura è anche la peggiore in quanto a "senso complessivo dell'opera", come forse direbbe Adorno. Ciò dimostra che musica, produzione e scrittura come elementi costitutivi, su quel tipo di oggetto sonoro chiamato "canzone", possono non bastare a darle senso di esistere.

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L'articolo Abbiamo chiesto ad Enrico Gabrielli di analizzare le canzoni del Festival di Sanremo di Enrico Gabrielli è apparso su Rockit.it il 2017-02-13 10:38:00

COMMENTI (1)

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  • chiara_meattelli 7 anni fa Rispondi

    Questa è l'unica cosa che ha senso leggere riguardo San Remo. Grazie Enrico, splendida analisi!