Scritte di casa mia

"Rivoglio il mio ping pong", "Pogo sfogo", "Tozzo presidente": le scritte sui muri di Chiari, in provincia di Brescia, sono tanto assurde quanto affascinanti. La funk band Phonobeat le ha prese e trasformate in musica, in uno schizofrenico album che va dall'hardcore alla samba. Ecco come suona

I Phonobeat
I Phonobeat

"Gheddafi facci il pieno" è uno di quelle cose della mia città, Udine, che più mi fanno sentire a casa quando ci passo davanti. Si tratta di una scritta su di un muro in pieno centro storico, giusto all'altezza di vicolo Pulesi: una sorta di porta dimensionale tra i negozi più fighetti di via Mercatovecchio, dove si può leggere questa bislacca richiesta, e la concentrazione di bar dello stesso vicolo e di via Sarpi, in cui invece si sbuca attraversandolo. 4 parole che, con un umorismo che oscilla tra la satira geopolitica e l'idiozia pura, riescono a stamparmi un sorriso idiota ogni volta che ci penso. E che mi hanno fatto capire come scrivere sui muri sia un'arte fine e sottile, ben prima che il genio che si abbarbica sotto i portici della città numero 1 in questo campo, ossia Bologna, venisse giustamente celebrato con un meraviglioso profilo su Instagram. O, quanto meno, prima di mettere il mio naso da ingenuo adolescente fuori dalla provincia friulana e rendermi conto che c'è un mondo anche là fuori.

Una delle scritte che si possono trovare in giro per Chiari
Una delle scritte che si possono trovare in giro per Chiari

Anche a Chiari, cittadina in provincia di Brescia, devono aver un culto particolare per le scritte sui muri. Almeno questo è quello che si intuisce da Graffiti, il disco di debutto dei Phonobeat, band di 7 elementi che definire solo funk è riduttivo. 8 tracce che prendono ispirazioni da altrettanti slogan, lezioni di vita, espressioni nosense e massime fuori dal tempo che la band ha scovato in giro per il proprio paese. Ispirazione che ha affascinato molti prima di loro – tra i più recenti fenomeni underground vengono in mente Milano posto di merda dei Giallorenzo e Ultras timido dei Fanciullino –, ma che qua fa da delirante filo rosso, tanto caotico quanto divertente.

Già la partenza è un'invocazione che ha un che surreale: Rivoglio il mio ping pong. Chi è a parlare? Che fine ha fatto questo ping pong? E poi, che vuol dire? Si riferisce a un tavolo da ping pong o allo sport in generale? Per i Phonobeat tutti questi interrogativi trovano risposta in un groove che parte dai sincopati rimbalzi di una pallina, capaci di diventare gli accenti ritmici su cui costruire i loro incastri super funky tra pesantissime chitarre, basso, tastiere e fiati. Da questo si passa ad Acab, acronimo ben più inflazionato, che si converte a un frenetico inseguimento sonoro da poliziottesco anni '70. Un po' come sentire una versione più scombinata e caciarona dei primi Calibro 35.

I Phonobeat
I Phonobeat

O così ci si può illudere fino a che non parte il terzo brano, Pogo sfogo: poco più di un minuto di puro punk hardcore, talmente esplosivo e inaspettato da chiedersi che non sia partito per sbaglio un altro disco dal computer. E invece no, sono proprio loro, che mettono da parte i sax e i tromboni per far sentire, per la prima volta nel disco, una voce che esplode in sguaiatissime urla. È come un'interferenza, sensazione amplificata dalla radio che passa nella coda finale.

Graffiti è così, disorienta nel suo muoversi tra i vicoli di un paesino di provincia, sorprende nei paesaggi che si aprono a ogni angolo svoltato, eppure con un senso di familiarità costante, una coerenza obliqua in cui ci si riesce sempre a ritrovare, dettata dai suoni ruvidi e potenti che si ripresentano nel disco. Per cui anche il passaggio tra l'hip hop di The world is yours, lo ska funk di Comunisti di merda (tanto così) – in cui si può sentire anche la celebre battuta di Mario Brega da Un sacco bello – e i ritmi sudamericani dalle tinte cupe di Tozzo presidente samba – chi sia Tozzo non ci è dato saperlo, mentre samba è un'aggiunta della band – trovano il modo di incastrarsi nell'ingarbugliata trama sonora dei Phonobeat.

video frame placeholder

Ciao Roma il nord va via è il brano più struggente del disco, aperto da un delicato piano su cui si appoggia una sofferta chitarra blueseggiante, presto seguita dei poderosi fiati che entrano all'unisono. Qua ci si spinge fino ai territori del rock anni '60, con la trascinata coda di organo nel finale ad aggiungere un tocco di psichedelia al tutto. Questa malinconia fa da preludio alla title track che chiude il disco: nei rarefatti avvolgimenti chitarristici da Durutti Column c'è modo di dare spazio a una dolcezza finora tenuta nascosta, come a grattare via quella patina grezza che avvolgeva gli altri brani. È giusto l'annuncio di un treno in partenza al binario 7 che ci riporta nel contesto suburbano del disco: un treno che ci porta via dalla vita di provincia e ci proietta in un futuro incerto, lontano dalle bizzarrie del nostro paesino e dalle assurdità che ne scuotono la monotonia. E in cui però torneremo ancora e ancora, anche solo per assicurarci che quelle misteriose parole sui muri siano ancora lì, per farci sentire davvero a casa.

---
L'articolo Scritte di casa mia di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2022-01-11 11:00:00

COMMENTI

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia