"Sei nell'anima" è l'atto finale dell'invenzione di Gianna Nannini

Abbiamo guardato "Sei nell'anima", il film di Netflix sulla "ragazzaccia del rock". Quello che viene fuori è un mondo angusto, quello di un'artista che si è potuta permettere di essere "strana" perché c'era qualcuno a monetizzarla

Un frame dal film via Netflix: Letizia Toni nei panni di Gianna Nannini
Un frame dal film via Netflix: Letizia Toni nei panni di Gianna Nannini

Dopo l'annullamento della fruizione musicale per come eravamo soliti intenderla, per molti ragazzi, in un mondo per lo più di ascolti porzione singola, il bio-pic è diventato il nuovo e unico momento di socializzazione verbale in ambito musicale. Da qui l'uscita e il successo di pellicole o intere serie votate alla creazione di un nuovo brand della nostalgia per un mercato di tranta-quarantenni (e che ammicca ai ventenni) che un tempo avrebbero storto il naso e forse rotto qualche muso per molto meno e ora si suppano persino la versione belli impossibili dei Mayhem in forma di bio-pic. Come tutti i tipi di nostalgia, pure questa ha una componente molto identitaria. La peculiarità, forse, è nel minimo iato temporale descritto: si ricorda inteneriti ciò che è accaduto in una manciata di anni, di solito cinque, dieci ma a volte anche tre oppure meno, lasciano il resto della narrazione a dozzinali riassunti sullo schermo nero o direttamente alla memoria o alla fantasia dello spettatore.

Back in Black, di Sam Taylor-Johnson, sulla tormentata e breve vita di Amy Winehouse, ha cavalcato questo fenomeno, raggranellando 20 mila euro in meno di tre settimane, quinto incasso italiano di un mese dominato da classici inaffondabili a base di Kung Fu Panda, Ghostbusters, King Kong & Godzilla, come sempre accade con l'arrivo della bella stagione a discapito del cosiddetto “cinema invernale”, più riflessivo e impegnato. Il suo illustre precedente, Bob Marley – One Love di Reinaldo Marcus Green, uscito a febbraio, ha lasciato le sale per approdare in streaming, con un malloppo di ben tre milioni di euro. Le proporzioni del fenomeno - siamo a maggio e già si parla di dieci altre uscite -  e i valori simbolici che gli sono stati appiccicati addosso, dal marketing e dai media che fanno più o meno da grancassa, dovrebbero indurre a considerare con interesse l'affare, almeno dal punto di vista qualitativo, se sociale e culturale può sembrar di chiedere troppo.

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Certo si dice sempre, e lo invocano a gran voce spesso anche i diretti interessati, che siano essi i registi o gli artisti, specie se sono ancora attivi discograficamente: questi film non hanno bisogno di critica, sia cinematografica che tanto meno musicale. Sono omaggi (con pretese artistiche) destinati soprattutto ai fan, poi agli appassionati e infine ai curiosi, film di intrattenimento (a volte con fini voyeuristici, se l'artista è scomparso, va detto). Ma è proprio dove la funzione della critica è negata, o minimizzata, che la critica ha allora più ragione di essere. Soprattutto se riguarda quell'ambito che più occupa le nostre vite. Personalmente, m'interessa più leggere un'analisi sensata di Mixed By Erry che mille di Povere Creature, per quanto una dotta e creativa possa poi esserci. Perché nel primo caso capisco qualcosa del paese in cui vivo, della percezione che abbiamo della musica, e del suo valore culturale.

Invece questo succede, anche sulle riviste, sempre più sporadicamente. Non sapremo mai se, proiettato al cinema, Sei nell'anima di Cinzia TH Torrini sarebbe stato un flop rispetto alla programmazione, se la pellicola avrebbe creato un “piccolo caso” o meno ma, a sentire Letizia Toni e Gianna Nannini, rispettivamente recitante e recitata, spalleggiarsi in tutti i reel promozionali in rete, il concept del film della regista di Elisa di Rivombrosa e Donna Detective (ma ha anche fatto cose buone) è di quelli da fare sognare a occhi aperti sia i fanatici che i simpatizzanti, e persino gli scettici: le origini della nascita del mito della Nannini. Solo che il concept è già finito, e nel film di richiami ad aspetti inediti, oserei dire in senso universale, non ce n'è l'ombra.

Il rapporto con il fratello (Alessandro, il vincitore di sette Gran Premi di Formula 1) è così flebile da sembrare assente, così come il rapporto con la famiglia dell'alta imprenditoria sienese sembra quello di decine di figlie ribelli senza un papà industriale, presidente sportivo e Priore. Forse regista e sceneggiatori hanno capito che era alquanto improbabile chiedere alla Nannini una storia con quel minimo di pur vaga onestà intellettuale per non chiedere allo spettatore di ritenerla uguale a tante altre adolescenti di quegli anni perché, lei, come diceva il critico e filosofo Jarrett Kobek riferendosi a Beyoncé, uguale a tante altre non lo è stata un solo pomeriggio della sua vita; perché anche lei, come Beyoncé, è “un potente miscuglio di ambizione smisurata, rare possibilità economiche, trauma infantile e mistero genetico”.

Cosa rimane allora? La surreale storia iper-romanzata di una ventenne che (non) lavora qui e lì (almeno finché non si rompe le palle) sfruttando una voce atipica, mentre abita in pensione, prende casa, cambia casa, gira con una moto di grossa cilindrata di cui paga benzina, bollo e assicurazione (la domanda, non si fosse capito, è: con i soldi di chi?) mentre il padre svolge il ruolo del “nemico” con la stessa becera ipocrisia con cui Russell Hammond, chitarrista degli Stillwater, usa questo appellativo per il giovane cronista del Rolling Stone William Miller, nel bel film di Cameron Crowe Quasi Famosi. E poi? Il toccasana a cui il cinema italiano ricorre ogni volta che annaspa, cioè quasi sempre: l'amore o meglio la narrazione delle paturnie amorose. La quale, se declinata in più puntate nel sonnolento pomeriggio di mia madre, diventa una telenovela; mentre coniugata in chiave di sentimentalismo e ricerca di una identità, diventa, attenzione, film drammatico, o meglio lo aggiunge al già dato valore di bio-pic.

E nessuno dica che è sempre la solita sbobba o che gli sceneggiatori sono fermi agli anni cinquanta o che i registi sono dei conigli. Ma resta comunque la sensazione di un'occasione mancata. La stessa provata per Rose Villain al Concertone del primo maggio, quando si presenta al concerto organizzato dalle più grandi sigle sindacali, pensando (lei o chi per lei) che le basti indossare una t-shirt bianca con un cuore nero e la scritta “Human Rights” per far sì che un qualsiasi potenziale talento nel raccontare il suo rapporto con i sentimenti possa essere perso come lotta di classe o anche solo sul serio, in quel contesto lì. Lallero. Così sono capaci tutti. Quale ritratto allora dell'artista e ancor più della società viene fuori da Sei nell'anima?

Un mondo chiuso in sé, nel privato (Cazzi Miei del resto si intitola l'autobiografia del 2016), in cui le uniche questioni che contano sono: 1) la conquista del successo (manco a dirlo edulcorando sempre di più concetti, soggetti e melodie) 2) la conquista amorosa (con par condicio il film rappresenta, accanto al solito maschio latino con camicia bianca aperta e ciondolo, la ragazza sognata; ma mentre quello sembra costantemente sciallo e accondiscendente, l'altra appare ora volubile, ora stronza, ora pretenziosa) 3) in mancanza di meglio, i successi fino a Fotoromanza, ovvero il salto del fosso nelle classifiche con la tanto sospirata (dal produttore e dall'etichetta, a fin di bene, si capisce) ballatona. Un mondo angusto, dove la morale è solo una, quella del pari e patta: posso accettare che tu sia strana o quello che vuoi, a patto che possa essere capitalizzato.

Insomma, ogni volta che vedo un film biografico, generalmente, mi viene da rivalutare l'artista trattato, vuoi per gli abbellimenti della storia, vuoi per le furbate che, bene o male, si trovano in tutto questo genere di produzioni, vuoi per la narrazione romanzata. Dopo la sofferta visione di Sei nell'anima posso dire che Gianna Nannini ha un primato: è l'unica artista che ritenevo discutibile prima e ora la ritengo persino di più. Non perché "i toscani hanno devastato questo Paese" o almeno non solo ma perché la mia impressione, secondo me, e ripeto secondo me, è che la Nannini ha avuto una fortuna al quadrato quando venne fuori.

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Era un periodo di ragazzacce rock: Patti Smith, Chrissie Hynde, Joan Armatrading e qualcun'altra. In Italia c'era un buco. Non c'era una rockeuse, allora si son inventati la Nannini rock. Questo al netto di una sequela di testi tra i più raccapriccianti del creato, in un italiano approssimativo, gonfi di anglicismi a caso e con una pronuncia da scuola italiana montessoriana che ha attecchito infatti nella Germania degli Scorpions (cfr. Ragazzo Dell'Europa e Rock You Like A Hurricane), resi se possibile ancora più urticanti dal costante ammiccamento pruriginoso e fallocentrico di una che per anni ha cantato di maschi tamarri, arrapanti e sciupafemmine, con un linguaggio da bar, e una mattina è diventata un'icona (!?) gay.         

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L'articolo "Sei nell'anima" è l'atto finale dell'invenzione di Gianna Nannini di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2024-05-10 17:05:00

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