“Siamo tutti sfaldati, c’è gente che non esce più di casa”. Anche se Riccardo Capone, aka Sano, lo dice ridendo, la platea a cui è rivolto si trova un attimo stranita ad avere di fronte questo squarcio dentro una delle realtà artistiche che più ci hanno appassionato in questi ultimi anni: il Thru Collected. Etichetta discografica e collettivo da Napoli, il Thruco è stata una boccata d’aria incredibile per la musica italiana dal post Covid in poi. E che ora pare aver raggiunto un punto d’arrivo.
Gli indizi c’erano, sparsi qua e là. A cominciare da Thru, traccia conclusiva di Opopomoz, disco solista di Sano che prende il suo titolo dall’omonimo film d’animazione di Enzo D’Alò, nonché il motivo per cui l’abbiamo invitato nella nostra redazione a farsi intervistare. Non si tratta però di un’intervista “canonica”, ma di un esperimento che facciamo già da qualche tempo: a fare le domande c’è una schiera di aspiranti reporter, ossia gli studenti del corso in giornalismo musicale della Better Days School. È a loro che Sano si apre senza filtri, passando dallo Zecchino d’Oro a un traumatico rave, fino alla dolorosa situazione che ha visto sfaldare il gruppo con cui è iniziata la sua carriera musicale. Ecco com’è andata.

Cominciamo dal titolo del tuo disco: come mai Opopomoz?
Mi sono quindi chiuso in cameretta, ho attaccato fogli di carta alle pareti e ho iniziato a scrivere cose. A un certo punto mi è venuto in mente quel film, quel titolo, che in realtà è anche la mia immagine di WhatsApp da dieci anni. Una roba che per me è una fissa. A me piacciono un sacco le cose per i bambini. Ho anche scritto una canzone per lo Zecchino d'Oro, quindi ho proprio un attaccamento verso quel mondo.
In che senso hai scritto una canzone per lo Zecchino d'Oro?
Tutto nasce dal fatto che mia madre è maestra d’asilo e psicomotricista. Da piccolo sono stato bombardato da quel mondo, da tutte le canzoni che lei faceva ascoltare ai bambini.
Quando tre-quattro anni fa ho deciso che la musica sarebbe stata la mia strada, avevo questo pallino: “Prima o poi voglio scrivere una canzone per lo Zecchino d’Oro, così mia madre e i suoi alunni la ascoltano su Rai1”. Un giorno mi chiudo in camera e scrivo due canzoni: una, secondo me, bellissima; l’altra così così. Quando mando quella bellissima, tutti mi dicono che è bella ma si capisce che è scritta da me. Quando mando quella così e così, tutti mi dicono che è visionaria. E passa. Ha superato una selezione enorme, tipo 5.000 canzoni, senza nessun accesso privilegiato. Ho scoperto che era passata mentre ero in sessione di scrittura con Wayne Santana della Dark Polo Gang a Roma.

Con il film di Opopomoz quando sei entrato in contatto la prima volta?
Ci sono stati vari film e prodotti culturali che mi sono stati propinati nella mia infanzia e preadolescenza dai miei genitori. Questa parola mi è sempre rimasta attaccata, un colpo di genio di D’Alò.
Che ha pure la parola “pop” nascosta al suo interno.
In realtà l’ho realizzato dopo… Però sì, mi diverte giocare con questa cosa. Se devo dire che genere faccio, adesso dico pop. Io non sono né cantante né musicista. Mi piace scrivere. Pubblico una canzone e poi va per la sua strada.
Come autore, ti preoccupa l’AI?
Non ho paura del progresso, soprattutto tecnologico. Non dico di essere insostituibile, ma quando scrivo lo faccio prima di tutto per me: è personale, non vivo l’ansia di essere rimpiazzato. E poi non condivido l’allarmismo: quando ho studiato cultura digitale e comunicazione ho visto come ogni nuova tecnologia venisse accolta come una minaccia. Il teatro doveva sparire per colpa della TV, la TV per colpa del computer… Alla fine ogni mezzo trova il suo posto e non si mangia gli altri. Penso che succederà lo stesso con l’AI.

Rispetto al passato, con questo disco solista cosa vuoi lasciarti alle spalle?
A livello artistico, nulla. A livello umano e professionale, l’esperienza con Thru Collected è stata… strana. Quando ho iniziato a vedere contesti diversi, più semplici e trasparenti, ho capito che qualcosa all’interno di quella bolla non funzionava, tornare al suo interno diventava pesante. Lì ho realizzato che dovevo uscirne. Più che lasciare alle spalle, ho capito cosa voglio portare con me. Le esperienze passate mi hanno fatto da palestra, ma sono state anche molto tossiche: mi hanno mostrato cosa mi fa bene e cosa no. Adesso che lavoro da solo, mi prendo i miei errori e le mie scelte sbagliate. Ma non ho più intermediari che mi fanno sentire sotto pressione o poco valorizzato. Ed è, onestamente, una liberazione.
Il brano Thru, quindi, non chiude solo il disco.
Quando mi succede qualcosa di brutto, ci faccio una canzone che romanticizzi quell'evento. Quando ho fatto questa canzone ho capito che effettivamente stavo facendo un disco, avevo bisogno di raccontare ciò che vivevo e di far sentire un po’ delle emozioni e della rabbia che vivevo in quel periodo. Con tutti i ragazzi siamo in buoni rapporti, ma alcune dinamiche decisionali hanno finito per influenzare tutto il progetto. Avevo bisogno di raccontare quella cosa, ma non sapevo come parlarne, quindi l’ho resa una canzone. Anche l’ep L’industria, il pop, la camera, il sesso, in realtà, è molto arrabbiato, tutte le canzoni parlano di questa situazione e sono tutte rivolte alla stessa persona.
La fine dei Thru Collected come gruppo ti ha fatto perdere positività e ingenuità nei confronti del tuo progetto?
Ingenuità no, non credo ci sia mai stata. O comunque c'è sempre stata creativamente. È più l’essersi avvelenati un po’: si sono create le situazioni in cui ti sentivi “sostituibile”, un sentimento condiviso che ciclicamente credo abbia coinvolto tutti. Thru Collected nasce come etichetta, però poi il termine finisce per indicare il gruppo, anche il progetto è virato su di noi. Piano piano si sono create delle dinamiche che ti mettevano in una condizione precaria, tutti erano costantemente in allerta.

Prima parlavi di romanticizzare gli eventi traumatici. Vale così anche per Calore?
Calore nasce dal ferragosto di un paio di anni fa, da una festa - più un rave, anche se non rende del tutto l’idea - sul fiume Calore. Andiamo e iniziamo a prendere sostanze in maniera becera. Alle 9 di mattina ricominciamo a drogarci, sta di fatto che arrivo al punto in cui inizio a sentirmi male. Lì mi parte un bad trip: sentivo che ero fermo a combattere tra il rimanerci sotto tutta la vita, con la bavetta che scende, oppure tornare ad essere me. Mi faccio questa battaglia di due ore, poi mi passa. A distanza di tempo ho sentito che dovevo scriverci una canzone.
La scorsa estate Morena, tuo brano contenuto nel disco di Golden Years, ha ottenuto successo mentre stavi finendo di scrivere il tuo disco. Come ha influito questa cosa?
Diciamo che mi ha creato delle aspettative un po’ pericolose per un momento. È normale: inevitabilmente sei a contatto con i numeri. Io non sono fissato con le statistiche, non uso manco Spotify, però quando ti arriva questa cosa ti investe. Le persone intorno a te te lo fanno notare, inizi a pensare: “Ok, sta succedendo davvero”. Ha influito bene, perché mi ha gasato. La piena percezione di quanto fosse diventato un fenomeno l’ho avuta solo più tardi, in questo periodo, ma già prima aveva avuto un ruolo: mi ha aiutato nei concerti, nel tour che ho fatto prima di uscire con l’album. Al contempo però so che è un precedente difficile da raggiungere: i tempi cambiano, gli streaming sono diversi, tutto quello che ha fatto quel brano resta un punto di riferimento. Però sto tranquillo: mi ha motivato, mi ha aperto delle strade e mi ha dato energia per continuare.

Anche tuo padre fa il musicista: cosa significa per te essere cresciuto con la musica in casa?
Per i primi 10-13 anni della mia vita ero sempre con i miei. Ho conosciuto diversi cantanti, come Giuliano dei Negramaro e Caparezza, ho sempre vissuto ambienti di pop star e di backstage. A un certo punto mi sono convinto di non poter fare canzoni, mi sono quindi dedicato ai graffiti. Poi mi sono ritrovato a dire: “ma posso mai non fare le canzoni anche io?”. Quindi, quando mi ritrovavo in contesti musicali ero già abituato, non era una particolare sorpresa.
Che importanza ha per te l'uso del napoletano nei tuoi testi?
Io non sono un napoletano “verace”. In famiglia si parla napoletano, ma non è mai stata la lingua principale: vengo da contesti borghesi, o post-borghesi, in cui questo aspetto è sempre stato un po’ smussato.Quando mi approccio al napoletano nei testi lo faccio solo quando sento che devo usare quella lingua, quando una cosa posso dirla solo così. Cerco di non appropriarmi di stilemi o di mondi che non mi appartengono, perché so quanto sarebbe facile farlo. Però inevitabilmente inserisco qualche riferimento a mio padre, che canta in napoletano, quindi in un certo senso “cado in piedi”: posso permettermi quella lingua perché fa parte della mia storia. E poi è una lingua bellissima. Se avessi il coraggio, farei anche un disco tutto in napoletano.
E a questo proposito, come si è evoluto il tuo rapporto con la città?
La particolarità di Napoli è che non è davvero una “grande città”: in realtà è un paesone. Conosci tutti, incroci sempre le stesse persone, è stretta, compressa, e questa cosa te la senti addosso. Non ti fa guardare in alto, letteralmente: io non so nemmeno come sono fatti gli ultimi piani dei palazzi. Napoli è tutta vicoli, strettoie, sei sempre addosso agli altri. Per quanto da fuori sembri che stia succedendo un boom, in realtà l’offerta culturale è limitata: non ci sono molte serate, non ci sono molti locali. A Napoli o suoni in un posto da 100 persone, o passi direttamente a uno da 800, o al Palapartenope. Ti ritrovi dentro un ritmo che a un certo punto ti sfianca. Ed è anche per questo che molti se ne vanno. Oppure succede un’altra cosa: la gente vive ciclicamente nuove adolescenze. Ogni tot anni parte la fase del “siamo pazzi”: a 20 anni ci facciamo i tatuaggi da soli, a 23 la stessa cosa, a 25 aggiungiamo la ketamina… è come un loop continuo. E la mia paura è proprio questa: che tra tre anni ci ritroveremo di nuovo punto e a capo, con un’altra versione dello stesso ciclo.
L'intervista è stata realizzata dagli studenti e dalle studentesse del corso di giornalismo musicale della Better Days School: Federica Vinciguerra, Valeria Biello, William Forteleoni, Vittoria Fringuello, Mattia Cariello, Francesco Pastore, Valeria Razzante, Annachiara Maddaloni, Martina Minciotti, Matteo Antonio Mandurrino, Camilla Preziosi, Chiara Gozzi
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L'articolo Senza Thruco, senza inganno di La classe della Better Days School è apparso su Rockit.it il 2025-12-23 16:07:00

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