The Special Need: l'amore secondo Enea. L'intervista a Carlo Zoratti

Il viaggio di un ragazzo disabile alla ricerca di una donna con cui fare l'amore. Esce oggi The Special Need, abbiamo intervistato il regista, Carlo Zoratti, e Dario Moroldo che ha scritto la colonna sonora.

Esce oggi nelle sale The Special Need. E' un film molto bello, toccante, schietto. Una commovente storia sul sesso e sull'amore. E' il primo film di Carlo Zoratti, già nei Ragazzi della Prateria (che da anni curano tutta la parte visual degli show di Jovanotti). Angela Maiello ha intervistato e San
Esce oggi nelle sale The Special Need. E' un film molto bello, toccante, schietto. Una commovente storia sul sesso e sull'amore. E' il primo film di Carlo Zoratti, già nei Ragazzi della Prateria (che da anni curano tutta la parte visual degli show di Jovanotti). Angela Maiello ha intervistato e San - The special Need

Esce oggi nelle sale The Special Need.  È un film molto bello, toccante, schietto. Una commovente storia sul sesso e sull'amore. È il primo film di Carlo Zoratti, già nei Ragazzi della Prateria (che da anni curano tutta la parte visual degli show di Jovanotti). Angela Maiello l'ha intervistato e Sandro Giorello ha fatto due chiacchiere con Dario Moroldo (degli Amari) che ha scritto la colonna sonora.

The Special Need è un documentario che racconta la storia di un ragazzo disabile che, insieme due amici, inizia un viaggio per trovare una ragazza con cui far l'amore. Avevate qualcosa già scritto o tutto il materiale è nato durante le riprese?
Carlo Zoratti: No, non c’era niente di scritto, se non il fatto che avevamo questo obiettivo da raggiungere, cioè soddisfare il bisogno di Enea di avere una ragazza. Quando hai un obiettivo puoi immaginarti delle fasi da attraversare. Inizialmente avevo pensato che avrei potuto tenere accesa la telecamera tutto il giorno, riprendere centinaia di ore e poi dopo tenere le parti che ci interessavano. Una cosa che non sapevo, e che ho scoperto poi, quando la telecamera è arrivata, è che pesava moltissimo, 18 chili. Questo ci obbligava a riprendere per non più di un paio di ore al giorno e a decidere esattamente quando accenderla. C’era un grosso lavoro di selezione che andava fatto prima, se vuoi una specie di montaggio mentale. Se, ad esempio, in furgone si stava facendo una discussione interessante e si intuiva che poteva portare a qualche spunto utile, decidevamo di rimandarla ad un momento dove la si poteva filmare. Quando abbiamo finito tutta la prima parte di montaggio siamo ritornati a fare delle riprese solo per fare dei raccordi, ad esempio Enea che entra nella stanza del teatro e si cambia, scene di questo tipo.

(Enea Gambino Carlo Zoratti)

Però The Special Need sembra un film in piena regola. È stata una scelta voluta fin da subito o è il materiale girato che che vi ha portato in quella direzione? 
Io l’ho fatto di proposito perché il mio obiettivo era riuscire a fare un film che parlasse di disabilità in un modo da poter interessare a chi di disabilità non gliene frega niente. Volevo che andassero a veder questo film i colleghi di mio fratello, che fa il militare, gli amici del bar di mio zio; avevo in testa questo tipo di prodotto e avevo capito che il linguaggio da usare era completamente diverso da quello di un documentario classico, perché sennò si avrebbe avuto l’impressione di guardare Report. È stato difficilissimo trovare questo linguaggio. È stata anche un’arma a doppio taglio, perché da un lato è la forza del film, dall’altro la sua più grande debolezza, perché molte persone vedendolo costruito in questo modo dubitano della veridicità dei sentimenti, della veridicità delle azioni e lì ho corso un rischio.

Tu pensi, allora, che per raccontare una cosa vera possa essere utile il linguaggio della finzione? 
Da tanti anni ormai il documentario si sta spostando sempre di più sul confine con un linguaggio che viene tradizionalmente considerato della finzione. Penso ad “Armadillo” o “Bombay Beach”. Nel mio caso se avessi utilizzato il linguaggio di un documentario classico non avrebbe avuto la stessa forza perché avrebbe spezzato i racconti di Enea, che hanno bisogno di respirare nel ritmo della realtà. Le interviste avrebbero distrutto i tempi comici e i ritmi empatici di Enea. Noi la chiamiamo la macchina del gelato: ad Enea ogni tanto dici qualcosa e poi devi aspettare che la macchina del gelato faccia il gelato. Hai bisogno di quel tempo lì, poi dopo il gelato è buonissimo, ma devi aspettare che lo faccia. Se si fosse fatto come un documentario classico di cinéma vérité, con le interviste frontali, penso che non sarebbe stato la stessa cosa. Abbiamo dovuto trovare la giusta lentezza delle scene, come la giusta velocità, per riuscire a far uscire Enea nel migliore dei modi. E ci sono voluti sei mesi e 21 versioni diverse del film.

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Facciamo un passo indietro. Come mai hai deciso di fare questo film? Come è nata l’idea?
Conosco Enea da un sacco di tempo. Abbiamo la stessa età, siamo della stessa zona. Io ho vissuto un periodo all'estero e quando sono tornato, dopo tre o quattro anni che non lo vedevo, l’ho incontrato alla fermata dell’autobus. Ho visto che aveva il segno della barba che cresceva, questo ha creato un contrasto tra l’immagine che io avevo di Enea, come di un eterno bambino, e la dimostrazione pratica, concreta di trovarmi davanti un adulto, un uomo com me. E allora spontaneamente mi sono domandato se anche lui avesse le mie stesse fantasie, desideri, curiosità. E così gli ho chiesto: Enea ma tu una morosa ce l’hai? Tutto è partito da questa domanda, apparentemente molto semplice.

E cosa è successo dopo?
Quando ho scoperto che Enea la morosa non ce l’aveva e che la cercava da tanto tempo mi sono sentito responsabile di questa situazione. Perché io la morosa l’ho trovata con i miei amici, non con mio papà e quindi se Enea una morosa non l’aveva trovata in qualche modo la responsabilità era anche mia. Così sono andato a parlare con i suoi genitori e mi sembrava che sua mamma non vedesse l’ora che qualcuno affrontasse con loro questo tema. Era un fiume in piena che aspettava di uscire: era la prima volta che qualcuno gli faceva queste domande. Mi ha guardato negli occhi e mi detto: che cosa possiamo fare? E io non capivo perché lo chiedesse proprio a me. L’unica cosa che potevo fare era provare a cercare una soluzione per Enea e raccontare questa storia, in modo che altre persone che si trovano nella stessa situazione potessero avere degli esempi a cui fare riferimento. Per raccontarlo qualcuno avrebbe potuto scriverci un libro, io ci ho fatto un film.

Il film è molto schietto. Prendi la scena della piscina: voi affrontate in maniera diretta sia l'idea che Enea possa dare fastidio alle ragazze sia il fatto che per lui tutto potrebbe essere ricondotto ad un normale bisogno di svuotare il sacco; tutto ciò va ben oltre il buonismo che di solito accompagna i discorsi sui disabili.
Da come abbiamo montato le scena sembra che noi, lì in piscina, pianifichiamo in maniera un po' cruda come risolverla e decidiamo di andare puttane. In realtà è andata diversamente: quella discussione è avvenuta dopo la notte passata al bordello di Graz. Quindi sì, può essere che abbiamo calcato un po’ la mano, ma va bene così.

Più avanti capirete meglio la sua necessità sebbene foste partiti da due approcci diversi: tu più sbrigativo, Alex più cauto.
Ero rimasto stupito dal bordello di Graz. L’atmosfera era molto più viva in realtà di quanto non si veda nelle immagini, una specie di festa. Non mi aspettavo che un bordello fosse così, mi sono sempre immaginato dei posti estremamente squallidi, come probabilmente sono. Il caso eccezionale di questo bordello in cui ci trovavamo è che c’era in corso una grande festa, dove tutti ballavano, c’erano anche ragazze venute da fuori che non c’entravano niente con le prostitute. Non capisco come mai. In questa atmosfera di festa ero convinto che Enea ci si trovasse bene, invece Alex credeva di no. Più che altro penso che quello che stavamo entrambi verificando, sia io che Alex, era una percezione che avevamo in comune. Noi ne avevamo discusso prima e stavamo cercando di aiutare Enea a risolvere il suo conflitto, quindi quello che sembra è che io spingo più in quella direzione e Alex nell’altra.

Nel corso del film sembra quasi che Enea non sia l’unico protagonista. Avevate messo in conto di rimanere così coinvolti dall’esperienza del film o è stata una “fortuna” collaterale?
No, l’avevamo messo in conto e sapevamo che il coinvolgimento emotivo sarebbe stata la parte più difficile di tutto questo film. Non che sia difficile accettare il coinvolgimento emotivo, perché noi eravamo già coinvolti emotivamente, conosciamo Enea da sempre. Era difficile accettare di fare queste esperienze insieme e documentarle, questo era difficile. Avevamo deciso che avremmo raccontato quello che sarebbe successo in questo viaggio, ma ci sono state delle volte in cui io stesso non volevo sentirmi parte della cosa. Da un lato, in certi momenti, era come come se avessi voluto smettere subito di fare il film e semplicemente continuare a stare con Enea per trovare una soluzione per lui; dall’altro sapevo che se non avessimo documentato tutto, il lavoro fatto sarebbe stato inutile, non tanto per Enea, ma per tutti gli altri che avevano bisogno di vedere questa storia raccontata.



Nell’ultima scena, quando Enea ti chiede se troverà mai una ragazza, sembra che tu non ti senta all'altezza di rispondere. È così?
Sì è esattamente quello che mi sta passando per la testa; quello che sto pensando lì e che mi fa stare molto male è se avrò il coraggio di dirgli la verità. Se un altro ragazzo mi avesse fatto la stessa domanda avrei mentito senza problemi. Con Enea non ho mai mentito, gli ho sempre detto che secondo me avrebbe fatto tanta fatica a trovare una ragazza, che mi sembrava talmente difficile da essere quasi impossibile, sebbene ci sia una possibilità. Io gli ho sempre detto la verità. In quel momento ho capito cosa mi stava per chiedere, lui stava empatizzando con la musica, e mi sono detto: cazzo, cosa faccio adesso? Gli dico ancora una volta, no Enea non la troverai, te l’hanno già detto a Trebel, oppure mento perché in questo momento lui ha bisogno di sentirsi dire altro? Io lì gli ho detto sì, ma in realtà non ci credevo. Secondo me lui ha creduto alla mia risposta e io sono contento di avergli risposto in quel modo. Anche perché così ha capito che non è finita lì, che c’è un percorso da fare, e che avrà altre possibilità.

Secondo te il film può essere visto come una riflessione sull’importanza del ruolo della donna nella vita di un uomo, a prescindere dalla disabilità?
Certe femministe possono credere che io la veda in questo modo e magari mi odiano per questo, ma non la penso così.

Non pensavo strettamente all’aspetto sessuale, ma più in generale all'amore.
Io non lo metterei nei termini del rapporto tra uomo e donna. Nel caso di Enea lui immagina questa relazione idilliaca, il principe azzurro con la principessa che vanno a vivere nel castello. Però quello che per me è ancora più importante è che dietro questa nostra ricerca avremmo potuto scoprire che la fantasia emotiva di Enea non era questa, ma che poteva essere di vivere in un rapporto di schiavitù con un maschio dominante.

Questa è la tua prima volta da regista, nella vita normale sei un Ragazzo della Prateria, e tutti vi conoscono per aver curato i visual dei tour di Jovanotti. L’aspetto narrativo è sempre presente nei tuoi lavori? 
È una cosa che cerco di fare sempre. Se non mi racconto da solo una storia non so dove andare. Quindi anche nei lavori che facciamo con Lorenzo ogni volta gli raccontiamo noi una storia.

Per esempio?
Nel tour di Ora avevamo immaginato che Lorenzo fosse una sorta di esploratore dello spazio che arriva sul pianeta terra, scopre le emozioni e poi ritorna nello spazio. Ovviamente tu potresti dirmi che quando uno va a vedere lo spettacolo non se ne rende conto, però ci aiutava molto a costruire. L’abbiamo fatto anche nell’ultimo tour, quello di Backup, anche se era molto più complicato, perché non era un concept album ma 25 anni di carriera e dare una coerenza narrativa a 25 anni di carriera di uno che fa il bianco e il nero, un giorno sì e un giorno no, non era facile.

Come fa un’immagine, che potrei definire sintentica, ad avere presa in un contesto comunicativo come può essere quello di un concerto di Jovanotti, in cui c’è una forte partecipazione emotiva? 
Il fatto è che in quel momento non lo stai facendo per un semplice motivo estetico, non stai cercando semplicemente di impressionare il pubblico, ma stai provando a mettere quelle immagini al servizio della musica e delle emozioni che già ci sono. Quindi c’è già qualcosa che sta venendo trasportato dalla musica e quello che abbiamo cercato di fare è di lavorare per riduzione, per sintesi. Se riesci a sottrarre lasci anche più spazio all’immaginazione. Il ruolo dell’immagine in quel momento lì è di suggerire quasi, se vuoi, una palette colori, in modo che se la gente si immagina qualche cosa se la immagina con quei colori lì, o di creare della dinamica, illuminando l’ambiente e poi andando giù fino al buio.

Nella fase creativa la musica quindi vi guida molto?
Sì, sarebbe impossibile fare questo lavoro a prescindere dalla musica. La coerenza tra musica e immagini è per forza di cosa una coerenza emotiva. Non può esserci una coerenza solo formale, al massimo può esserci una coerenza in termini di ritmo. Per lo più cerchi di immaginarti in che mondo potrebbe esser ascoltata una canzone così. Per esempio durante Ora c’erano delle immagini specchiate, fatte con un mirror, per cui sembravano delle navi che volavano nello spazio. È il lavoro di un artista francese che io avevo visto tanto tempo fa online. Quando mi sono immaginato dove poteva suonare Ora, mi sembrava una canzone adatta allo spazio. Immaginandomi che ci fossero degli altoparlanti nello spazio, mi è tornato in mente questo video che avevo visto e l’abbiamo acquisito. Molto del lavoro che facciamo con il tour di Lorenzo, siccome è impossibile produrre un tour di qualità così alta con il budget che c’è, consiste nel comprare le license di artisti che stimiamo molto, dopodiché creiamo dei raccordi tra i vari video.

Tu come sei finito a fare questo lavoro?
In maniera del tutto casuale. È frutto della volontà che cambia costantemente. Ho scelto regolarmente di voler fare qualcosa di diverso; mi annoio molto velocemente. All’inizio volevo suonare la batteria, io ero il batterista degli Amari. Poi ho pensato che magari non ce la facevo e ho deciso di andare all’università. Che faccio? Multimedialità. Chissà che cazzo è. Poi, mi sono detto, faccio Interactive Design e mi ero convinto che era quello che volevo fare tutta la vita. Poi ho cambiato idea ancora e mi sono messo a fare video; poi è stato il momento del film. Ho semplicemente seguito cosa decidevo di fare volta per volta. Facendo così ho perso tantissimo tempo, però mi sono scoperto molto come persona. È come se tutti i lavori che faccio fossero delle grandi sessioni di autoanalisi, cerco sempre di mettere qualcosa di me stesso dentro quello faccio. E se non ci trovo qualcosa di me nel lavoro che mi viene richiesto, non lo faccio, non ci riesco, non mi viene bene.

SCRIVERE AL CONTRARIO

L'intervista a Dario Moroldo sulla colonna sonora del film

La cosa più interessante dell'OST di The Special Need è questa: siccome in furgone non era possibile accendere la radio - avreste dovuto pagare i diritti dei pezzi trasmessi - tu hai fatto un cd masterizzato con già tutte le musiche. Praticamente hai scritto la colonna sonora al contrario, prima sono arrivate le musiche e poi il film.
Dario Moroldo: Sì. Prima di tutto ho indagato sui gusti musicali dei protagonisti, mi sono fatto fare delle playlist da Enea, Alex e Carlo. C'era un po' di tutto, dai Litfiba a Johnny Cash, da lì mi sono fatto ispirare.

È per questo la vena country-blues è molto presente?
Sì, una volta capiti i gusti dei protagonisti ho pensato ad una colonna sonora immaginaria per il loro viaggio. Parallelamente ho anche pensato ad tema che facesse emozionare Enea, qualcosa che lo stimolasse, ed è nato questo walzer che poi è diventato il tema principale del film. Questa la possiamo chiamare la prima linea della colonna sonora. Ce n'è poi una seconda, ovvero le musiche scritte durante il montaggio. E poi una terza, la più importante, dettata dall'idea che Enea in furgone potesse skippare liberamente i brani. E una specie di costante di indeterminazione che caratterizza tutto il film, l'idea che i cambi di umore di Enea potessero influenzare tutto, e che il film dovesse seguirli in qualche modo, passo passo.

Tu Enea lo conoscevi già?
L'ho visto una volta sola prima del viaggio.

Quindi in sostanza non è stato poi così differente da un film normale, ogni compositore deve sperare di emozionare uno spettatore sconosciuto.
Assolutamente, credo che realizzare musiche per film sia come lavorare con l'architettura, bisogna trovare un punto d'incontro il più possibile “universale” con il pubblico. Ovviamente in questo caso era più difficile perché se nessuna delle tracce fosse piaciuta non potevano chiamarmi a metà viaggio e chiedermi di fargli un secondo cd.

E del pezzo country house che manco Pitbull? L'ho sempre detto che prima o poi i Rednex sarebbero tornati.
La musica del Tagadà. Se sei in una festa con gli autoscontri di solito il sound è quello. Quella l'ho scritta dopo, durante il montaggio, volevamo una crosta anni 90 ed è arrivata subito (ride, NdA).

Forse è solo una mia impressione ma il missaggio è particolare. Ad esempio: tutte le scene dove Enea è dalla terapista è come se il pianoforte non fosse nella scena, ma distante, tipo in un'altra stanza.
È voluta. Ci siamo immaginati che ci fosse un bambino alle prime armi con il pianoforte in una stanza al piano di sopra, e in effetti questa scena si ripropone finché, ad un certo punto, questo bambino riesce a costruire una parte più organica. È la location che ce l'ha suggerito: questa casa così borghese, elegante, ma al tempo stesso accomodante.

Uno dei momenti più forti, sia nel film che nella colonna sonora, è il coro da chiesa che accompagna Enea quando sale in camera per fare l'amore. Di chi è stata l'idea?
Di Carlo. Quel pezzo è una tipica villotta friulana, abbiamo provata a farla in più versioni strumentali, o con dei pad siderali, poi abbiamo scelto di lasciarla con il coro. È un canto che parla di carnalità ma con una tenerezza incredibile.

Quindi non è religiosa?
Si è religiosa, ma ha un piglio così schietto e molto intimo di fronte alla visione di Gesù da neonato. Forse ho sbagliato a usare il termine carnalità, si chiama "Ave o Vrgjine us saludi", che vuol dire "Maria vergine vi saluto". Parla di questa persona che incontra la madonna con il bambino e si commuove nel toccarlo. Ma questa cosa del toccare è enfatizzata in una maniera forte, quasi carnale.

Questo è il tuo primo lungometraggio, in giro ho letto che di mestiere fai il sound designer, e io che pensavo che suonassi in un gruppo indie-pop.
Ero l'autore e la compositore per Sony, ora non lo sono più. Faccio il media composer, è più corretto. Il sound designer è quello che in un film sonorizza una scena e crea un'atmosfera partendo da dei suoni e non da delle musiche. Hai presente “Gravity”? E mi piace moltissimo, è un po' una cosa che ho fatto anche con The Special Needs. Il media composer invece si occupa di spot, cortometraggi, etc etc. Lo faccio da un po' di anni ormai.



E quanto mi costa un Moroldo oggi?
(Ride, NdA) Puoi guadagnare bene ma, ti dico per esperienza, devi mettere in conto anche periodi dove non hai molti lavori, credo sia una costante del settore audiovisivo. Se fai spot per la tv i soldi li vedi ancora, ma si lavora soprattuto per il web e il web paga poco. Alla fine collaboro con un molti amici registi, mi piace come cosa, si lavora bene anche quando fai prodotti “commerciali”.

Qualche esempio?
Tutti i bumper ed i temi delle scorse olimpiadi di Londra su Sky Sports erano sono stati fatti da me e Sergio Maggioni. Oppure certi bumper per Mtv UK.

Tu come ci sei finito a fare questo lavoro?
Anni fa rimasi con il culo per terra a Milano, chi ci è passato sa cosa vuol dire perdere il lavoro in questa città. Dopo un po' iniziai a dirmi che tutta l'esperienza che avevo accumulato da produttore, a partire dagli Amari in poi, doveva in qualche modo darmi da vivere. Mi sono messo in proprio, ho iniziato con alcuni lavoretti sul web e man mano ho allargato il giro. La cosa bella di questo lavoro è che ti pone davanti a delle cose che non avresti mai fatto da musicista, tipo “risuonare” Rihanna. Ti trovi di fronte a trick produttivi che non avevi mai pensato, ti assicuro che è molto stimolante. E poi, parallelamente, ti capita di fare “The Special Need”.

Questa cosa dei brani risuonati non la credevo possibile, una sera mi ero trovato a guardare l'ultimo film di Moccia e molte delle tracce della colonna sonora erano delle cover delle super hit americane fatte da altri cantanti, immagino italiani.
Non hanno potuto - o voluto mettila come vuoi - pagare i diritti di sync. Ci sono anche i sound-alike, che sono versioni che assomigliano alla canzone ma di cui proprio non paghi nulla, nemmeno i diritti per fare la cover. Le mie sono malatissime (sorride, NdA). Ma è sempre stato così, la library music nasceva della stessa esigenza: se ora un produttore ha bisogno di un brano che assomiglia ai vari Guetta, Rihanna, Arcade Fire, un tempo aveva bisogno dei falsi Hendrix, Beatles o Rolling Stones. La musica è assurda, se ci pensi.

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L'articolo The Special Need: l'amore secondo Enea. L'intervista a Carlo Zoratti di Angela Maiello e Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2014-04-02 00:00:00

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