Sziget Festival - Óbudai-sziget - Budapest

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Enrico: Perché la gente a Milano ha la mania di pogare durante qualsiasi tipo di serata? Voglio dire, se suonano i Bloody Beetroots nel capoluogo lombardo, qualcuno che esce dalla mischia sanguinante lo trovi quasi sempre. E invece guarda qua: una folla enorme ed entusiasta che salta, balla applaude, accoglie con un clamore mai visto Bob Rifo e la Death Crew 77. E nell'aria c'è l'amore, non i pugni. Che poi è bello vedere che i BB suonano prima dei Suicidal Tendencies, c'è della logica. I ST sono quelli che prima di chiunque indossavano bandana e cappellini con la visiera all'insù, che hanno provato un po' di tutto senza mai perdere l'attitudine hardcore, che quando salgono sul palco portano una vibra che manco passassero Garibaldi e i suoi Mille, e che riescono a infiammare il pubblico anche se l'impianto, per l'unica volta nel corso di un festival tecnicamente impeccabile, fa i capricci. Una furia sincera e travolgente, che si contrappone alla staticità degli altri due palchi principali, con dei Motorhead incredibilmente fiacchi e dei Pulp bravi ma eccessivamente posati. In alto le Pepsi per i Suicidal.

Marcello: Devo ammettere che fare di notte la spola tra un palco e l'altro, cercando di smaltire il beveraggio, è una fatica che volentieri mi accollo. L'after-hour qui al Sziget ha essenzialmente il suo epicentro nella Party Arena, un tendone da 3000 m². Mani in tempesta, piedi che battono tempi sgraziati, Richie Hawtin tiene banco. Giro al largo, il Meduza è la tenda small, palati fini, dubstep a manetta, piglia meglio e lascio le gambe a consumarsi contro il dancefloor. Che a proposito di electro, il secondo giorno sul Main Stage è essenzialmente un nome solo: Chemical Brothers. Spettacolo puro, visual fantastici che sembra quasi di stare al cinema e incastri perfetti. Il mio compare avanza ipotesi di playback, The Great Big Beat Swindle. Tengo bene a mente i dubbi mentre reggo un'altra pinta. Il pomeriggio intanto due nomi su tutti: Crystal Castles, (s)mash-up di punk e di colori e attitudine più bombing rispetto al disco, e Ben L'Oncle Soul, fresh soul che incanta e groove a catinelle. Così, per non farci mai passare la voglia di shakerarci gli uni contro gli altri. Hello, do you want to drink something?
E: È il paese dei balocchi. C'è musica per tutti i gusti, e se non ti piace la musica puoi fare bungee jumping. E se non ti piace il bungee jumping puoi andare a vedere il circo. E se non ti piace il circo puoi farti un giro fra la miriade di bancarelle. Ma stacci attento, che con la scusa che si paga solo con questa tessera ricaricabile che non ti fa capire quanto spendi, finisce che dilapidi un milione di euro. Perché offrire da bere è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare. Ma questa volta non mi fottono. Me ne vado al Main Stage, in mezzo alla bolgia, lontano da tentazioni commerciali. Suonano gli Skunk Anansie, quel gruppo più famoso in Italia che all'estero. Ma cazzo quanto spacca Skin. Non può fare a meno del contatto con il pubblico. Lo cerca, lo abbraccia, si abbandona alle sue sue mani. Un rapporto di cieca fiducia, amore vero. Insomma, nulla a che vedere con i Prodigy, che il pubblico lo colpiscono in faccia con suoni sgraziati, volumi fastidiosi, un'attitudine punk al limite dell'accettabile e voci così spompate che in confronto Dizzee Rascal, sul palco appena prima di loro, sembra un fenomeno. Praticamente campano ancora con un album. Ma che album. Ogni pezzo scatena il delirio, stare nella folla è come essere in un tritacarne. I Prodigy ti masticano e poi ti sputano, e a fine concerto ti ritrovi esausto, bagnato, e ti lamenti di quanto hanno suonato male. Ma alla fine, per divertirsi come bambini, non servono dei musicisti eccelsi.

E: Le micro e le macro sfaccettature. Aspettando i Verdena faccio un giro, mi dico. Finisce così che oltre la radura a fianco del Main Stage mi si apre l'area Civil del Sziget. Corsi di yoga, rabbini in abito talare, HIV test, e ogni improbabile tipo di workshop. Un contenitore ricchissimo, il modello di festival totale per antonomasia. Ok, il rischio "Effetto Luna Park" è sempre dietro l'angolo. Ma nonostante i marcioni che fanno a gara per correre nella ruota del criceto, o chi non rinuncia a bere una birra sospeso in aria a 20 metri da terra, l'insieme rimane bilanciato con equilibrio. D'altronde, tutto risponde alla scalmanata voglia di correre, pogare, divertirsi e far l'amore fino ad avere il cuore in gola. Presobenismo naturale. La collinetta dello Europe Stage è piena di italiani. Il tipo con la maglia di Materazzi vince su qualsiasi tricolore. I Verdena, dal canto loro, sembrano meno scazzati di quanto ce li avessero descritti. Preludio a una buona performance, l'ennesima tappa di un Wow Tour che gli sta facendo macinare km come prima mai. Sembrano soddisfatti, e il pubblico se ne esce col sorriso sulle labbra. Lo stesso che regna sornione il giorno successivo sui volti degli astanti durante il live dei Kaiser Chiefs. Una macchina da guerra travestita da band dell'oratorio. Ricky Wilson è un folletto che corre e suda senza fermarsi nemmeno un minuto. Come Goran Bregovic, la sera sul World Stage, cassa dritta e pedalare. Ritmi serrati, stage diving violento e a ballarti intorno con questa luna piena sai che poi mi brilleranno gli occhi. Il fascino tzigano è lo stesso che si respira nella Roma Tent, angolo zingaro messo a metà strada tra il circo e i tendoni electro. Tiro su col naso aria meticcia, colgo al volo sguardi persi nella giostra dei confini spaiati. È questa l'Europa che vorremmo everyday.

E: Basta. Non ho più l'età per il campeggio. E nemmeno per le docce con l'acqua gelida. L'anno prossimo appartamento in centro, così per arrivarci ci si fa anche un giretto in barca sul Danubio, che non è mica male. L'ultimo giorno di programma è abbastanza fiacco, del tipo "salutiamoci così, senza rimpianti". Sul main stage aprono i Gogol Bordello, caciaroni e divertenti come al solito. E poi The National, Manic Street Preachers e White Lies, la fiera degli headliner improbabili. Per fortuna che un'alternativa la si trova sempre, e in A38 suonano Marina & The Diamonds e Selah Sue. La prima è ottima e coinvolgente, ma l'attesa è tutta per la seconda. Il tendone è pieno di curiosi. La ventiduenne belga è una delle rivelazioni dell'anno, chissà com'è dal vivo? C'è un'aria frizzante, l'atmosfera è quella delle occasioni importanti. Eccola fare il suo ingresso. È minuta, timida, ha l'aria da ragazzina. Ma ha una voce che ti lacera il cuore, sembra nata per stare sul palco e dietro di lei c'è una band che sa suonare davvero. La folla ascolta ogni pezzo in silenzio religioso per poi esplodere sul finale, regalando alla giovane artista gli applausi più calorosi di tutto il festival. Almeno qui, per questa edizione del Sziget, il vuoto lasciato da Amy Winehouse lo colma Selah Sue. E se da lei ci si aspettava già tanto, ora ci si aspetta ancora di più.

M: Tengo bene a mente la lezione. Non mi farò prendere dalla nostalgia così da non capirci più un cazzo. Né tantomeno lascerò che mi si appannino gli occhi. Scorza dura. L'ultima notte è un viavai, la gente si riversa in ogni dove, raccoglie le ultime energie dosandole col misurino. Milligrammi d'amore bastardo agli angoli delle strade. In Party Arena si tira finché l'alba arriva ad acciecare le strobo. Poi qualcuno decide che anche la musica ha detto già troppo. Si spegne improvvisamente tutto, dei tipi vicino a me raccolgono i cocci lasciati per terra mentre il grosso della gente si affolla ordinatamente verso l'uscita. Le ultime tenerezze, numeri di telefono sparpagliati nell'etere. In realtà non c'è neanche tanta malinconia, paura di non rivedersi più. Sono arrivederci lunghi un anno, ché qui la gente già prenota il posto per la prossima edizione. Cammino per John Lennon Avenue e mi sembra di vedere in reverse le scene del primo giorno. Ognuno porterà appresso anche solo un briciolo di Sziget con sé, con la speranza che la fotta di parentesi come queste faccia capolino anche nella vita quotidiana. Raccolgo i bagagli. Smontiamo la tenda. Resetto il cuore. Si torna a casa.

E: Imbocco il vialetto d'uscita con un frullato di sentimenti che si agita nello stomaco: dopo una settimana di festival – più tre giorni a cazzeggio - è legittimo aver voglia di tornare a casa. Ma questa pazza isola mi mancherà. Con il suo colore, le sue mille facce, le scene improbabili, quell'atmosfera di libertà un po' in stile Rototom che raramente si respira in altri festival (festival?) italiani. Per fortuna mi porto dietro un po' di febbre, così il ricordo del Sziget mi accompagnerà in maniera attiva ancora per qualche giorno. Rimane giusto il tempo per un bagno in piscina e un Gulasch nel quartiere ebraico, che l'indomani mattina di buon'ora si prende l'aereo. Sedili stretti, auricolari, un pilota su cui nutro qualche dubbio, mille pensieri, nuvole, palazzi, fabbriche. E siamo già in aeroporto. Afa, italiani che urlano, ma niente Danubio, niente isole piene di musica all'orizzonte. In compenso c'è l'autista dell'autobus che cerca di farmi la cresta sul biglietto. Ok: è l'Italia, baby.



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L'articolo Sziget Festival - Óbudai-sziget - Budapest di Redazione è apparso su Rockit.it il 2011-09-01 00:00:00

COMMENTI (1)

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  • alepiso1 13 anni fa Rispondi

    commovente, c'ero anche io, davvero bravi, ma mi dispiace non abbiate citato nè kasabian nè deftones