Giovanni Lindo Ferretti - Teatro Politeama - Cascina (PI)



Abbiamo due posti in prima fila: poltroncine rigorosamente rosse, morbide e confortevoli al punto giusto. Davanti un metro di spazio almeno per allungare le gambe, poi il palco. Ad altezza uomo, sì... ok, ad altezza mia; quindi non troppo alto, ecco.

Siamo fin troppo vicine alle casse che dovrebbero sputar suono e inondarci di vibrazioni e parole. Sembrano giganti, protese verso l’alto, e temo per l’incolumità delle orecchie di mia madre. Perché c’è lei seduta vicina nella poltrona rossa.

Alle nostre spalle si apre una platea di (non troppo) giovani e nongiovani (non troppo), principalmente coppie; abbracci, baci, o mutismi di attese e logorii di routine. Colore di riferimento: verde ultramilitare. C’è solo una mezza punk, che mi lancia un’occhiataccia di traverso perché tento di perdermi nell’incrocio di sguardi col suo boy seduto affianco... Ho dovuto rispolverarli per l’occasione. I miei occhi.

Il palco ha il sipario già aperto, come fosse un’enorme finestra davanti alla quale è tesa questa gigantesca zanzariera che non lascia intravedere oltre. Si spengono le luci e tutto riacquista il nero d’origine. La zanzariera è ancora là, ne sono sicura, eppure col nero accecante della scena ti è quasi invisibile. Ferretti è lì, oltre la retina. Si accende una sigaretta, vedi il tizzone incendiarsi ad ogni boccata e il grigio del fumo che brilla nel buio. In piedi, ai margini della scena, con un cappuccio che ne nasconde completamente il volto e il capo. Sembra più alto, più alto di come l’avevo sempre immaginato.

Sulla zanzariera vengono proiettate immagini, dietro continua a svolgersi il resto. L’immagine iniziale è quella ravvicinata di un GLF sornione che ondeggia sopra ad un’amaca con il volto sereno e un’età che non sei proprio capace di stimare. Da sotto il cappuccio si leva bassa e salmodiante l’inconfondibile voce, una sorta di benvenuto. Parte una musica che sa d’acqua e di gorgoglii (ricorda quella del sito di Gianni Maroccolo, probabilmente la stessa mano), una terra madre con un vestito blu d’onde di mare, danza ondeggiante ed gli altri 5 attori che sgusciano fuori da sotto alla sua veste marina come fossero i 5 continenti. Ferretti intanto continua a recitare “A tratti”, e tutto sembra incastrarsi.

Il palco è profondissimo, tutto rivestito di nero. Non c’è niente che faccia scenografia, se non gli attori stessi. Marchingegni escono ed entrano, ma non rimangono mai stabilmente. Ferretti recita le sue canzoni: molte di “Ko de mondo”, spunti da “T.R.E.” e da “Linea gotica”, uno stralcio di “Tramonto d’Africa” suggestivo e vivo (piacerà molto a mia madre) e alcune vecchie cose dei CCCP (che per ignoranza non riesco ad identificare totalmente). Sotto, un tappeto sonoro - piacevole, garbato, elettronico, interessante... bello! - che veste di nuovo queste parole che mi sono passate per le orecchie volte su volte e quasi le sento un po’ mie. Gli attori danzano e recitano col corpo, saltano, girano, penzolano e roteano. Cantano, cantano anche loro, quel lento cantilenare ammaliante.

Bello quando... Ferretti si toglie il cappuccio e si lascia illuminare in volto, venendo avanti verso il pubblico, e gli occhi rimangono infossati e neri nella penombra, e non riesci a capire se ti sta guardando in fondo all’anima o se semplicemente sta guardandoti oltre.

Bello quando... “In viaggio”, un GLF aereo, seduto su una sedia volante, recita appollaiato dall’alto. I ‘viandanti’ delle parole, roteando su loro stessi, escono da un lato del palco come fossero statuette di un orologio animato, mossi da un meccanismo automatico che li porta al centro della scena per poi farli tornare dietro dove lo spettacolo si esaurisce. La sedia volante e la sua ingabbiatura, mi fa pensare alle tre gabbie appese sulla facciata della chiesa di San Lamberto a Münster.

Bello quando... Io e Tancredi, con le immagini del cavallo sulla zanzariera, mentre dietro un attore/acrobata vola e rimbalza («Capace di volare...») fingendosi Tan, e poi scende e si addomestica, e «... disposto a stramazzare se l’occasione vale».

Bello quando... “Ongii” e la sedia voltante viene fatta ondeggiare come un pendolo, GLF assieme a lei continua imperterrito e accovacciato a raccontarci del fiume, investendoci di tranquillità e sulla testa una specie di colbacco, ad evocare la Mongolia.

Bello - anzi bellissimo - quando.... “Amandoti” cantata come essere negli anni sessanta, molto meno mazurca e più triolescano («Amami ancora fallo dolcemente, un anno un mese un’ora perdutamente...»). E subito a seguire “Intimisto”, recitata con la voce bassa e profondissima, come lo richiedono le parole. Intanto due attori (una la nipote) danzano un tango d’amore e d’odio, di abbracci e di allontanamenti, di strette e di botte, di passione e mai d’indifferenza, fino a consumarsi e spengersi («consuma spento e lento il mio dolore.... consuma me»).

Bello quando... lo sguardo soddisfatto e compiaciuto e di protezione di GLF, che per tutta la durata dello spettacolo rimane in scena ed è come se provasse piacere a rivedere tutto quello che accade là sopra... compiaciuto, appunto. Con lo sguardo di un padre che osserva i suoi cuccioli, le sue creature. E ne va fiero, e gonfio d’orgoglio.

Bello quando... torna alla fine l’immagine di Ferretti sull’amaca, proiettata sulla zanzariera gigante... e capisci che così com’è iniziato, lo spettacolo sta terminando...

Applausi sul finale. Applausi in mezzo, dove le pause li concedevano. Applausi... Applausi...

Il mio giudizio: lo rivedrei. Anche subito. Belle le musiche. Le parole già lo sapevo che erano belle. Bravi gli attori, le loro capriole, contorsioni, danze, movenze. Bello il palco sfruttato anche dall’alto. Belle le immagini. Bello il carisma. Resto affascinata, e sorrido di piacere per quasi due ore filate, per tutta la durata dello spettacolo - decisamente autoreferenziale, quindi sconsigliato ai non amanti - che sembra un soffio.

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A mia madre (generazioni a confronto) sono piaciute le musiche. Le parole, molte se l’è perse perché non le conosceva e spesso erano raffiche basse e profonde e non si lasciavano conquistare. Tutto il volteggiare, e le immagini giganti sulla zanzariera, e le danze... quelle le sono piaciute.

Chi c’è c’è e chi non c’è non c’è.... Per una volta... io c’è...

Questi i miei occhi rispolverati... grandi...

Elena (elenina.l@tiscalinet.it)



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L'articolo Giovanni Lindo Ferretti - Teatro Politeama - Cascina (PI) di Redazione è apparso su Rockit.it il 2004-02-07 00:00:00

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